Ci sono molti modi per esplorare i confini fra la letteratura per adulti e quella per ragazzi. Uno di questi è far incontrare due protagonisti d’eccezione come Roberto Denti e Gianni Celati, come è avvenuto il 19 marzo scorso nell’ambito della 54a edizione del Premio Ceppo Pistoia. Partendo dalla rievocazione dei loro esordi letterari, i due “padri” del racconto, vincitori rispettivamente del Premio “Ceppo per l’infanzia e l’adolescenza” e del “Ceppo cultura del verde”, hanno interagito fra loro sollecitati dalle loro reciproche provocazioni, con l’aiuto di due critici-scrittori – Giusi Quarenghi e Alberto Bertoni – che fanno parte della Giuria del Premio. Dal loro dialogo solo in apparenza “anomalo” abbiamo liberamente tratto alcuni stralci salienti per sottoporli alla riflessione dei lettori
pensando che talvolta uno sguardo trasversale rispetto ai temi centrali di un’opera letteraria possa creare un proficuo terreno di confronto nel quale i confini sfumano e si rimettono in discussione formule critiche già codificate.
Denti e Celati sono due scrittori che, nonostante la loro differenza di età, hanno più o meno esordito fra il 1971 e il 1972, a poca distanza l’uno dall’altro; entrambi hanno poi una grande passione per il pensiero e la filosofia ma anche per Pinocchio. Sono anche due autori in cui il confine fra prosa e poesia viene a cadere, perché la scrittura si fa nel profondo “cerimonia antropologica”: narrazioni come fiabe e favole, ma anche sequenze ritmiche come poesie e filastrocche stanno a dimostrarlo. Iacuzzi: L’idea di far incontrare due grandi scrittori che di solito vengono letti in sfere diverse, quella della letteratura per adulti e quella per l’infanzia, nasce dal fatto che la divisioni in opposte “tifoserie” non ci piace, e dunque vogliamo “scombinare le carte”. Ci piacciono dunque gli scrittori che “delirano”, nel senso che vanno fuori dal solco, ci piace che le scritture, nella contemporaneità, possano ibridarsi nel dialogo e nel confronto, e parlino ciascuna all’altra e nell’altra. Comincia Bertoni che pone una domanda a Celati.
Bertoni: Partiamo dal tuo primo libro pubblicato, Comiche, uscito nel 1971. In anni di contestazione, quando ci si aspettava da un narratore una posizione teorica e ideologica, hai pubblicato un magnifico libro narrativo che subito colpì l’attenzione di Calvino, in cui l’estetica di fondo è quella del cinema muto americano e delle grandi maschere comiche: da Ridolini a Buster Keaton, ai film muti di Stanlio e Ollio. Come hai fatto a partire dalla prospettiva di un cinema che sembrava al di fuori dell’estetica progressista di quegli anni?
Celati: (…) Avevo un amico che lavorava nell’ospedale psichiatrico di Pesaro, e mi mandava quotidianamente gli scritti dei matti: quando li leggevo mi chiedevo “ma cosa sono quelli che si professano grandi scrittori in confronto a loro?”. (...) Mi sono portato sotto le armi questi scritti e ricordo che, squattrinato come pochi, alla sera nel mio camerone ne copiavo alcune frasi, perché iniziavo ad avere la percezione che le parole avessero la possibilità di muovere il mio sistema organico. Ho trovato un testo di Levi Strauss che parla di vecchi sciamani che usano le parole per guarire la gente: la mia idea era proprio quella di scrivere per guarire. Dopo il servizio militare mi sono ammalato di epatite virale e per quaranta giorni sono rimasto chiuso in casa, da solo. È stato allora che ho avuto un momento di estro: ho voluto scrivere come i matti, e sono venute fuori, “a rotta di collo”, 20 pagine scritte a macchina. Passò di lì a trovarmi Adriano Spatola, un poeta mio ex compagno di liceo, e decise che le pagine andavano pubblicate su una rivista, che finì poi nelle mani di Italo Calvino. (...) Il secondo passo è stato nella passione, che mi ha trasmesso mio padre, di fare il pagliaccio. Mi sono messo a scrivere un romanzo, Le avventure di Guizzardi (Einaudi, 1975), pensando di voler scrivere qualcosa di simile a Pinocchio, che è per me un libro fondamentale e che ho letto un visibilio di volte. Tutte le settimane andavo a recitare quello che avevo scritto in casa di amici, e avevo inventato una sorta di falsetto con la voce che, a giudicare dalle loro reazioni, faceva molto ridere. Non ho mai avuto l’idea di dire “adesso scrivo questo”. Ho piuttosto l’impressione che ogni tanto ci sia un vento che arriva e che mi porta a buttare giù qualcosa di scritto […]. Ciò che mi interessa di più sono gli studi etnici. Quello al quale mi sono maggiormente dedicato è l’attraversamento a piedi della valle del Po da Milano fino alle foci del fiume. Questa era la cosa che più si avvicinava alle mie fantasie di poter diventare uno scienziato, cioè una persona che non fa chiacchiere a vanvera, nonostante io ne faccia ancora oggi moltissime. Non riesco a dividere bene le due cose, così come non riesco a riconoscere nessuna differenza sostanziale tra poesia e prosa.
Giusi Quarenghi: Roberto Denti ha iniziato a raccontare nel 1975, quando era un ragazzo ormai cresciuto da molto tempo. È prezioso pensare a tutto il tempo in cui la sua scrittura maturava. Roberto è una sorta di trovarobe di professione, ha potuto cambiare idea nel corso del tempo, anche se non si è mai spostato dall’idea fondamentale che è quella di una pratica resistente. Inchiodato dal confronto con il fratello maggiore, si è laureato in filosofia nel 1946 e vorrei immaginarmi la faccia del suo professore quando gli ha detto che voleva laurearsi su Dostojevski…
Denti: (…) Celati ha detto di aver letto tantissime volte Pinocchio, che è il personaggio in cui mi sono identificato maggiormente da ragazzo e tutt’ora penso che non si può finire mai di leggerlo, perché è una sorgente continua di sollecitazioni. Sono uno scrittore tardivo, il mio primo libro per adulti, Incendio a Cervara, è stato pubblicato nel 1972. È vero, come ha scritto Pasolini nella recensione di quel volume, che ero uno scrittore senza aver scritto. Negli anni del dopoguerra ho pensato di scrivere un romanzo che avesse per protagonista un ragazzo che da Rimini per ritornare a casa, nell’alta valle Piemontese, seguisse il percorso del Po. Avrei voluto raccontare la cultura contadina che si trova lungo la valle, e non l’ho fatto perché secondo me per scrivere, oltre al vento che ti spinge, come dice Celati, bisogna essere in un momento di particolare serenità con se stessi. E io non lo ero. Ho fatto per anni il giornalista, ho guadagnato molti soldi, ma non ero sereno. Poi c’è stato l’incontro con Gianna e la possibilità di realizzare il mio sogno liceale di fare il libraio. (…) Uno dei miei poeti preferiti è Rainer Maria Rilke. Nella poesia “Annunciazione” l’Angelo va da Maria e le dice “io sono vento, rami, fronde, ma tu sei la pianta”. Ecco, io mi sono trovato la mia pianta. (…) Quando Gianni Celati ha detto che non c’è differenza sostanziale fra poesia e prosa, ho pensato a Cion Cion Blu di Pinin Carpi, dove soprattutto nel primo splendido capitolo il suono compenetra gli avvenimenti. Naturalmente non tutti i libri sono di questo livello ma bisogna far attenzione al fatto che le disponibilità del bambino sono infinite. Gianni Rodari diceva che i bambini hanno l’orecchio acerbo, aperto a tutte le sollecitazioni, noi invece siamo abituati a trasmettere loro degli stereotipi.
Celati: Mi sembra che siamo in un momento in cui alla salute faccia bene pensare che in altri paesi ci sono molte aperture, con le quali potremo metterci d’accordo, anche con la testa. Penso anche all’Islam, la cui religione ho studiato e che considero straordinaria. La scuola dovrebbe spiegare ai bambini come è nato l’insieme delle cose che girano intorno a noi: non è più possibile lasciarlo come qualcosa in sottofondo, dobbiamo uscire dal pettegolezzo, e tornare sul piano dei comportamenti umani. In questo senso credo che sarebbe utile imparare a scuola quali sono i comportamenti degli altri Paesi. Consiglio il libro La polvere del mondo (Diabasis, 2009) del giovane svizzero Nicolà Bouvier, e Il bosco del guaritore (Bollati Boringhieri, 2001), di Barbara Fiore, sulla popolazione dei Dogon. Credo sia importante capire che slanci e collegamenti tra tutti noi sono più stretti, non appena smettiamo di irrigidirci nel nostro spazio. Bisogna far capire ai bambini che l’altro mondo è il nostro mondo.
Denti: Vorrei concludere citando il verso di Solone “Io muoio molte cose ancora imparando”. Io, che ho qualche anno in più, da uomo moderno dico “io muoio molte cose ancora sbagliando”. Dobbiamo trovare un equilibrio tra imparare, conoscere, e sognare. Come diceva Calderon de la Barca, “Anche il maggior bene è piccolo, perché tutta la vita è sogno e i sogni sono un sogno”.
a cura di Ilaria Tagliaferri e Paolo Fabrizio Iacuzzi