La letteratura fantastica, primo patrimonio dell'umanità, raccontata attraverso un decalogo di parole chiave, tra grandi valori, emozioni universali e temi “tabù”, come la morte
di Silvana De Mari
Dalla fiaba al romanzo fantastico: Peter Pan
La letteratura fantastica è la prima che compare in ogni popolo. La prima parola scritta su questo continente è la parola ira: “L’ira funesta cantami, o Diva, del Pelide Achille”. Il genere fantastico era quello che raccontava il cantastorie, colui che andava da un villaggio all’altro, dove non c’erano i supermercati. C’era poco da mangiare, la scorta di pane e cipolla era tutto quello che separava dalla fame, eppure la gente dava il proprio prezioso pane e cipolla al cantastorie, perché raccontasse qualcosa che li portasse fuori dalla realtà, ma che in qualche modo contenesse quella realtà. Abbiamo poi avuto altri cantastorie, quelli che ci raccontavano le storie di Orlando a Roncisvalle, di Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda.
Poi compaiono le fiabe, che permettono al bambino di provare le emozioni in maniera contenuta. Quando Biancaneve scappa nel bosco abbiamo paura con lei, quando Cenerentola lava i pavimenti siamo furiosi. Quali emozioni sono nascoste nelle volute d’oro e d’argento? Tutte, incluse quelle dure: collera, paura, vergogna. Le fiabe ci insegnano a riconoscerle, a contenerle senza soffocarle. La fiaba nasce tra la gente, non si sa bene dove, poi si trasmette da nazione a nazione, cambiando sempre, ma restando fondamentalmente uguale a se stessa. In realtà la fiaba, proprio per il suo contenuto fantastico e per il lieto fine che c’è sempre, è in assoluto la narrazione più vicina alla realtà storica: è l’unica narrazione dove la realtà storica, di qualsiasi tipo, sia stata rappresentata. E oltre alla realtà storica, racchiuso nella onnipresente figura dell’orfano, abbiamo il dolore del bambino non amato. Soltanto nella fiaba si osa toccare questo atroce argomento. Negli ultimi duecento anni, con l’alfabetizzazione, compare il romanzo fantastico, che presuppone gente che sappia leggere e scrivere, perché bisogna andar avanti un capitolo dopo l’altro: non può essere raccontato nello spazio di una sera. Quello che amo più di tutti è Peter Pann nei giardini di Kensington di James Matthew Barrie, 1906. Ci presentano Peter Pan nel primo capitolo. Si dicevano di lui delle cose molto strane: che quando i bambini morivano Peter li accompagnava nel primo tratto di strada, perché non ne fossero terrorizzati. Peter Pan è stato perso da sua madre. Cosa vuol dire “perso”? Vuol dire che mio figlio è morto, non che mi è rimasto a casa fino a quarantacinque anni. Geni! Peter Pan ci parla del bambino morto in ospedale, e non del bamboccione che non cresce. Tutti i bambini crescono, meno uno: Peter non può crescere perché è morto e sta nell’isola che non c’è con i bambini perduti. Cosa vuol dire quindi che ho perso mio figlio? Chi ci dice che è morto in ospedale? Primo capitolo, i sentieri dell’isola felice hanno la stessa forma che ha il grafico della temperatura davanti ai letti in ospedale. Ma in un’epoca in cui non esistevano telefilm come Dr House o Grey’s Anatomy chi sapeva di quei grafici se non i bambini rinchiusi in ospedale? Nel Medioevo i bambini morivano come mosche, ma a casa in braccio alla mamma, mentre nell’Ottocento vanno a morire nel sanatorio da soli. La mamma non c’era, non c’era il telefono, la mamma andava a trovare i bambini alla domenica e le consegnavano le scarpine e i vestitini perché lui era morto da solo il giovedì. Durante tutta la narrazione i tre bambini ospiti hanno addosso delle camicie da notte, tutte le volte che Peter dorme, sempre, ha degli incubi talmente terribili che Wendy deve ninnarlo. L’isola che non c’è è il sogno di un bambino piccolo. Peter Pan ha i denti da latte, ci vengono descritti due volte e ci viene descritto il suo sorriso quando lui sorride, mostra tutti i denti. È il sorriso del bambino terrorizzato: “Dobbiamo fare una piccola iniezione, Peter, non hai mica paura?”. È il sogno di un bambino impotente: quando Peter non è presente, nell’isola che non c’è stanno tutti a braccia conserte. Quando lui arriva tutti si animano e cominciano a combattere gli uni con gli altri, perché Peter Pan gronda sangue. È pieno di lame insanguinate. Gli indiani e i pirati si infilzano a vicenda. Sì, sì, certo, poi è tutta una burla, domani siamo tutti vivi, ma il sangue viene descritto, i bisturi sono lame, gli aghi sono lame. Questi bambini sono dispersi, l’isola che non c’è altro non è che un ade pagano con tre mani di vernice sopra.
Decalogo del fantasy
1. Paura – Il genere fantasy è nato per motivi religiosi, ed è nato con due grandi libri: Il Signore degli Anelli di John Ronald Reuel Tolkien, 1955, e Le cronache di Narnia di Clive Staples Lewis, 1950. I loro autori ci hanno scritto nero su bianco che stavano mettendo in quei libri la spiritualità biblico-evangelica, che era rinnegata nelle due terribili religioni atee del XX secolo: il comunismo sovietico e il nazismo tedesco. Tolkien scrive durante la seconda guerramondiale Il Signore degli Anelli, in cui compare una paura nuova: la paura della fine del mondo noto, inghiottito per sempre da una tirannide atroce e genocidaria. Ha detto Kafka: la realtà non può essere guardata in faccia, abbiamo bisogno di un filtro. Quel filtro può essere il genere fantastico. Ha scritto Italo Calvino: la fantasia è come la marmellata, uno non se la può mangiare a cucchiai, perché dopo il terzo cucchiaio tutto quel dolce è stucchevole. La marmellata va messa sul pane, cioè va messa su un sapore diverso: la fantasia va messa su qualcosa di reale. Occorrono due pilastri perché si abbia una cultura di morte. Il primo è il complesso di inferiorità dello sterminatore davanti allo sterminato, che è il meccanismo psicologico descritto in Biancaneve. Il secondo è la perdita dell’etica, la negazione che il male esista, il suo continuo misconoscimento: è il meccanismo descritto in Hansel e Gretel, e soprattutto in Pollicino. L’orco che vuole sterminare i bambini finisce per uccidere le sue stesse figlie. Questi due meccanismi sono presenti nelle due saghe da me scritte: quella de L’Ultimo elfo (Salani, 2004)e quella di Hania.Il cavaliere di luce (Giunti, 2015).
2. Luogo fantastico – Da sempre, da quando mio padre mi ha mostrato il campo di concentramento della Risiera di San Saba, quando abitavamo a Trieste, il genocidio mi ossessiona. Ho scelto il fantasy perché parla del genocidio anche restando su un piano di leggerezza, come le grandi fiabe classiche sono rimaste su un piano di leggerezza e, insieme, di universalità: noi parliamo di lampadine e non di fulmini, come ha scritto Tolkien. Da qui la necessità del luogo fantastico, senza localizzazione nel tempo e nello spazio. Il luogo fantastico somma le caratteristichedel poema epico e della fiaba, ma è più vicino alla fiaba. La saga di Guerre Stellari, che è fantasy con qualche elemento di fantascienza, comincia con “C’era una volta”: il luogo fantastico è scomposto in una miriade di pianeti. In Harry Potter il luogo fantastico è intrecciato con quello reale, con il suo centro a Hogwarts. Nella “saga degli Ultimi” abbiamo le terre note: un piccolo lembo di terra tra il mare e gli orchi. Ne L’Ultimo elfo ci sono alcune citazioni in latino, tutte rigorosamente sbagliate per chiarire che non è latino, che ci riporterebbe a un tempo e un luogo riconoscibili, ma solo una lingua arcaica che gli somiglia. Come nella Terra Di Mezzo, anche nelle Terre Note elementi medioevali si mischiano a patate, pomodori e mais e, nel caso di Tolkien, anche l’erba pipa, per non usare la parola “tabacco”, proprio perché la non identificazione permette leggerezza e universalità. In Hania c’è il Regno delle Sette Cime, bizzarra valle circolare a forma di scodella. Questa forma è bizzarra: tutte le valli sono allungate, enon è casuale. La sua forma ha un significato preciso che verrà svelato al terzo capitolo della saga, e l’assonanza con la scodella, con la quotidianità del desco, lo connota come luogo di possibile tenerezza circondato da lupi.
3. Battaglia – Il fantasy afferma la verità, diventata indicibile: che gli orchi esistono e devono essere fermati. Gli orchi sono coloro che uccidono volontariamente i bambini e, dopo averli uccisi, festeggiano. Gli orchi sono gli artefici del genocidio e di quella piccola forma di genocidio portatile che è l’atto di terrorismo contro i civili. Gli orchi si fermano solo militarmente. Quindi il fantasy osa affermare la necessità della battaglia, e le ricostruisce anche. Gilbert Keith Chesterton ci spiega che amore e battaglia sono i principi su cui si fonda ogni romanzo. Lui dice che sempre ci sono una principessa, un drago e san Giorgio. San Giorgio combatte il drago per salvare la principessa. La principessa è l’oggetto da amare e per il quale battersi, può essere una persona, un popolo, una terra, la libertà, il drago è l’entità che la tiene in ostaggio, San Giorgio è colui che ama e combatte. Nella filosofia contemporanea non sempre si associa l’amore con la lotta, anzi, sembrano due concetti opposti.
4. Amore – Chesterton afferma che nel mondo moderno l’amore ha perso la sua connotazione di battaglia e viceversa. Ma è bene recuperare il significato perduto. Perché non è possibile amare qualcuno senza essere disposto a combattere e non è possibile combattere se non si ama. Da qui si arriva alla necessità del coraggio, che oggi non è più di moda, si chiama sindrome dell’eroe. Il fantasy è l’unico genere che contenga i grandi valori: la lealtà, il coraggio e la cavalleria. Il fantasy, come il poema epico suo antenato, serve per dare coraggio. “Coraggio padron Frodo si racconteranno di noi attorno ai fuochi e troveranno coraggio quando l’avranno perso”, dice Sam a Frodo in una delle scene più commoventi de Il Signore degli Anelli.
5. Sacrificio – Il coraggio si accompagna inevitabilmente al sacrificio: la capacità di sacrificare noi stessi, la nostra incolumità, la nostra vita, la nostra serenità, la nostra innocenza per la salvezza della principessa. Sam e Frodo sono i piccolo borghesi, a loro di fare gli eroi non interessa, tutto quello che desiderano è vivere nella Contea bevendo tè e “zappettando” le rose, ma quando la Terra di Mezzo è in pericolo e rischia di finire sotto la più orrenda e definitiva delle tirannie, loro mettono i passi uno dopo l’altro e scalano l’inferno. Il concetto di sacrificio come unica fonte di salvezza è fortissimo in Harry Potter, nella saga degli ultimi e in quella di Hania, e se esiste il sacrificio, la narrazione deve includere la morte. E qui arriviamo a un altro punto fondamentale: la morte. Il genere fantasy parla di Dio e della morte. I personaggi muoiono.
6. Morte – Altra caratteristica fondamentale dell’alta letteratura fantasy è la presenza della morte, il coraggio di parlarne. Anche i personaggi amati muoiono. Nei miei libri anche i personaggi molto amati muoiono. Sono un medico che scrive e so che cosa è la morte. E il dolore della morte. Nella vita vera la morte esiste. Se nella narrazione muoiono solo i cattivi la morte è interpretata come una punizione. Il giorno in cui un bambino si ritrova rinchiuso in un reparto oncologico domanderà che male ha fatto. Un bambino che ha la madre in un reparto oncologico domanderà che male ha fatto la madre. La morte nei libri fantasy permette l’elaborazione del lutto, permette di dire come si elabora il lutto, piangendo e piangendo tutti insieme. Nella vita contemporanea la morte è stata abolita: i genitori tengono nascosta la morte dei nonni, i bambini non partecipano ai funerali, nemmeno gli adolescenti. Tutta la ritualità che permetteva di affrontare la morte è scomparsa e la morte è diventata insopportabile. Nel fantasy la morte torna e torna per abbracciare la vita e ridarle senso.
7. Animale magico – Un altro elemento fantastico, imparentato con il poema epico, certo, ma ancora di più con la fiaba è l’animale magico. Il suo capostipite è ovviamente il drago, creatura di inaudita e infinita potenza, una somma delle competenze del carro armato e del cacciabombardiere. Il drago è la prepotenza assoluta, la violenza invincibile. Secondo lo psichiatra Newmann, tra i suoi infiniti possibili significati è che il drago abbia anche quello dell’autorità paterna che il ragazzo deve sfidare per diventare adulto. La sfida al drago è il rito di passaggio, una delle prove del torneo Tremaghi di Harry Potter. Alla luce di questa teoria è interessante notare come negli ultimi anni l’archetipo del drago si sia invertito. Yorsh, l’Ultimo elfo, adotta il drago, e non è il solo. C’è un generale e collettivo cambiamento, come se il rito di passaggio fosse stato abbandonato. Il cambiamento velocissimo e continuo della tecnologia fa sì che il padre non sia più il custode del sapere, ma qualcuno che vada aiutato nell’uso del computer, del cellulare, della miriade di nuovi oggetti.
8. Solidarietà – Un altro punto fondamentale del fantasy è la solidarietà, tema assolutamente irrinunciabile del fantasy. L’alleanza tra popoli diversi è riassunta nella Compagnia dell’Anello, nelle truppe del Leone di Narnia, nelle sbracate armate che combattono il Lato Oscuro della Forza in Guerre Stellari, ricompare ovunque si combatta per amore e non per odio. E solidarietà per gli uomini provano sia Yorsh che Hania, i due protagonisti delle mie due saghe. Entrambe cominciano con un bambino: Yorsh, l’Ultimo elfo nato con il compito di salvare il mondo, e Hania, nata con il compito di dannarlo. Entrambi sono dotati di libero arbitrio. Entrambi si umanizzano. Yorsh ama, e quindi combatte. Ce l’ha spiegato ancora Chesterton: perché una storia funzioni, perché di notte restiamo svegli per arrivare fino a pagina successiva, perché entri nei nostri sogni, devono esserci tre personaggi: la principessa, San Giorgio, il drago. Ogni romanzo deve conoscere il principio dell’amore e della battaglia, deve esserci una principessa, l’oggetto da amare e per il quale battersi, deve esserci il drago che la tiene in ostaggio, e deve esserci lui, San Giorgio, che è colui che ama e combatte. La principessa può anche essere il mondo o la terra di mezzo, ma il punto fondamentale è che San Giorgio, o chi per lui, ama e combatte. E ha ragione Chesterton quando afferma che uno dei più tragici errori della cinica filosofia moderna è che l’amare e il battersi siano stati messi in due campi diversi anzi opposti. Non è possibile amare qualcuno senza essere disposto a combattere. Non è possibile combattere per chi non si ama. Yorsh ama e quindi combatte. Sacrifica la sua angelicità, entra nel mondo, si sporca di fango e di sangue. Quando l’unica possibilità che ha per salvare colei che ama dall’ingiustizia e dalla morte è uccidere, macchia la sua innocenza. Come ogni vero eroe è dotato di una spada. Yorsh rinuncia alla sua angelicità e alla sua stessa immortalità per amore, uccide. Uccide una patella, e la mangia per poter conquistare la mortalità senza la quale resterebbe insulsamente vivo e giovane, per poter accompagnare coloro che ama. Hania nasce chiusa in un silenzio totale e nell’odio per il mondo che ha il compito di annientare. Ha una conoscenza totale della realtà e del linguaggio, ma le mancano le parole amore, amicizia, allegria e compassione, che per lei sono solo suoni. La compassione materna di sua madre salva la sua vita e la potenza virile delle narrazioni del Cavaliere di Luce salva la sua anima, perché lei ha un’anima, all’inizio minuscola, che poi cresce e si fortifica e dà rami e frutti, come un albero di melograno nato da un unico grano seminato nel deserto.
9. Libertà – Yorsh è dolce, attento, compassionevole. Hania è aspra, caustica, sarcastica. Ambedue sono rinchiusi in una disperata solitudine: quella di Yorsh annegata di parole, quella di Hania priva di qualsiasi suono, da cui riescono a uscire per la forza dell’amore, dell’amicizia, della compassione. Ambedue amano, quindi combattono. E diventano creature umane, dotate di libertà, di libero arbitrio. Quando l’angelo compare davanti a Adamo ed Eva, che hanno mangiato il frutto proibito, dice una parola ebraica, timshel. Il frutto proibito non è la mela, giuro! È il frutto proibito. Non è specificato quale, e così deve essere. Diventa la mela nel Medioevo, per l’assonanza tra “mela” e “male” (in latino, malus). Se non ci credete andate a controllare, e già che ci siete rileggetevi l’attacco del Genesi, che è di una bellezza sconvolgente. Nel principio Dio creò i Cieli e la terra. La terra era informe e vuota e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso; e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. Poi Dio disse “Sia la luce”. E la parola timshel? Vuol dire tu puoi. Tu puoi fare. Tu puoi non fare. È la libertà il dono più terribile e più grande. Yorsh e Hania scelgono, diventano creature umane, creature di luce e di tenebra che, però, hanno dentro un anelito eterno verso la felicità e verso il bene. Yorsh e Hania faticosamente conquistano la libertà. E la libertà serve per fare il bene.
10. Profezia – Dato che siamo costantemente sull’orlo della fine del mondo, importanza fondamentale ha la profezia, che è venuta a sostituire un’altra parola che comincia per “p”, che è “provvidenza”. Caso mai gli orchi attacchino, il clima ci travolga, gli extraterrestri arrivino e non somiglino ai coniglietti della Walt Disney, è confortante sapere che c’è una profezia, perché la profezia significa che qualcuno ha visto il futuro, e dato che il futuro può esistere solo nella mente di Dio, la profezia significa che Dio sta guardando nella nostra direzione, che non siamo abbandonati, che alla fine tutto andrà bene. Una profezia che si rispetti che sia appena appena passabile deve avere più di un significato e che tutte le possibili interpretazioni abbiano un senso. E un altro punto fondamentale della profezia è che rispetti la libertà, il libero arbitrio, perché alla fine la nostra vita la scriviamo noi.
Un fantasy aperto
L’ultimo elfo e Hania appartengono al genere che si definisce “fantasy chiuso”, sono romanzi ambientati cioè in un luogo e un tempo non riconoscibili. Il gatto dagli occhi d’oro (Giunti, 2014), invece, è un “fantasy aperto”, inserito cioè in un luogo e in un tempo riconoscibile. È sufficiente un unico elemento fantastico, perché una trama diventi fantasy. Per esempio, ci sono gli indiani, la ferrovia, il treno e una bacchetta magica: è fantasy.
Ne Il gatto dagli occhi d’oro, quindi, non c’è un luogo fantastico, ma gli altri elementi sono tutti presenti. L’animale fantastico èil gatto nero dagli occhi d’oro, che è veramente l’incarnazione di una donna accusata di stregoneria secoli prima, come secondo un’antica superstizione medioevale. È un’entità benefica che si muove nella realtà odierna di una periferia di una minuscola città sul mare, dove vive un’umanità povera e multicolore, dove ingiustizie antiche si fondono con ingiustizie nuove. Il suo compito è premiare chi le dimostri compassione con il più grande dono che possa esistere: la gioia, l’equilibrio, l’armonia della propria vita. Il gatto premia il coraggio e lo insegna, guida tutti sulla via della solidarietà. Anche qui c’è una battaglia: non una battaglia militare, cruenta, ma una battaglia per affermare il valore della vita, il valore della compassione, la battaglia che spesso dobbiamo fare contro la follia accettata.
Ogni epoca ha la sua battaglia. Ognuno di noi deve essere il cambiamento che vuole nel mondo. Battersi per qualche cosa è quello che ci tiene vivi, è quello che dà senso alla nostra vita. Anche quando abbiamo l’impressione che saremo sconfitti, dobbiamo batterci. Forse non saremo noi che arriveremo alla vittoria ma sarà qualcun altro, grazie al nostro contributo. E quindi, anche qui, c’è una profezia. La profezia, la più importante, quella che dà luce al mondo e alla Storia: la profezia che alla fine prevarrà il bene.
(da LiBeR 110)