Una riflessione di Antonio Faeti sul romanzo noir di Jack Ketchum, La ragazza della porta accanto: una lettura che solleva antichi dilemmi ermeneutici.
Ho letto La ragazza della porta accanto di Jack Ketchum (Gargoyle, 2009), con un senso di pena, di sgomento, di ansia, ovvero in condizioni di spirito che non credevo più possibili in un lettore che ha superato i 70 anni. Ci furono quasi solo tre occasioni, ma allora ero un adolescente, in cui mi sentii preso da turbamenti dello stesso tipo. Ho letto, soffrendo, Le diaboliche di Jules Barbey d’Aurevilly e mi sembrò, a metà degli anni ‘50, di essere entrato in uno di quei luoghi di sevizie e di torture che erano collocati anche vicino a casa mia e sui quali avevo sentito orribili racconti alla fine della guerra. Ho letto l’episodio di Merenzina, nell’Enrico il verde di Keller e non ho mai guardato una mia scolara, negli anni in cui ero maestro, senza vedere in lei la bambina assassinata dal religioso. Ho letto Teresa Raquin di Zola pensando alle turpitudini della Bologna povera e operaia nella quale vivevo. Ho sempre ritenuto che i tre libri fossero grandi libri, che dovessero fruire di variegate e complesse ermeneutiche. Ma il libro di Ketchum non offre alcuno spiraglio per una forma qualunque di catarsi e, ben scritto e ben costruito come è, prende il lettore e lo lascia lì, nel rifugio antiatomico abbandonato, nell’orrore delle sevizie, nella terrificante successione delle torture. Questa, con la madre folle e bieca che uccide Meg, la bella ragazzina odiata e temuta per il suo fascino, e la offre allo sconcio di adolescenti oscillanti tra odio, libido repressa, incapacità di intendere, bestialità regressiva, è una lettura che mi ha ricondotto a un antico bivio.
Mentre si cominciava a studiare le comunicazioni di massa, nei primi anni ‘60, era nato un paradigma interpretativo che, nella sua terrificante semplificazione nascondeva qualcosa di severamente vero. C’era un bivio di qua, Il gabinetto del dottor Caligari era propedeutico nei confronti di Hitler, di là Frank Capra dava una mano a Roosevelt (o a Truman).
Oggi, chiunque si trovi a conversare con i giovani, constata che la Storia è del tutto uscita dalla loro formazione, e senza la Storia, i baccanali di Tiberio, le avventure del divino Marchese, i suggerimenti politici della Pompadour, l’omosessualità dei Templari e le foto montanine che Adolf scattava a Eva vestita come l’Eva di una attuale pubblicità televisiva, riempiono lo stesso calderone di cui un nuovo Dotto Caligari è l’apprendista stregone.
Dopo le terrificanti sevizie al povero corpo di Meg, l’autore e Stephen King improvvisano un po’ di spiegazioni. King nega il se stesso letto in Danse macabre, l’autore è fiero di essersi basato su una solida ambiguità morale.
Non è certo questa l’ermeneutica che si dovrebbe usare. Ottime e utili sono invece le note che la casa editrice Gargoyle ha collocato in tante pagine. Ricordo gli antichi cineforum cattolici, rammento l’urgenza di discutere, scruto nella perdurante ambiguità del libro. Il romanzo non appartiene a una collana destinata ai giovani, ma la recensione che mi ha indotto ad acquistarlo io l’ho letta in un mensile della Bonelli, quindi certi ragazzi potrebbero seguire il mio stesso itinerario. E sarebbero soli nel cunicolo dell’orrore, soli nella piscina del relativismo, soli nel pozzo di chi non insegna più la storia perché le date richiedono un duro sforzo mnemonico. Ecco: accanto al corpo martoriato di Meg colloco tutte queste constatazioni.
E ritorno all’inizio: Jules Barbey d’Aurevilly è il dandy metafisico studiato dal mio maestro, il sommo Giovanni Maria Bertin, Keller ha esplorato la verde età come nessuno ha più fatto, Zola è morto dopo aver difeso Dreyfus... e chi è Jack Ketchum, lasciando in pace Jim Thompson?
(da LiBeR 86)