Fabrizio Silei, autore del libro Maestro, racconta il suo primo incontro con le idee e il linguaggio di don Milani, dove la retorica è ridotta al minimo, le domande sono fondamentali e il lettore è sempre considerato intelligente.
Quando hai incontrato per la prima volta don Milani?
Ricordo di aver incontrato una frase di don Lorenzo Milani. Forse di averla sentita in radio, o in televisione pronunciata da qualcuno. Oggi so che era contenuta in Lettera a una professoressa. Frequentavo la scuola superiore e la frase diceva: “La scuola è un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. Mi era sembrata bellissima, ma non l’avevo capita al volo. Quella frase era bella proprio perché ti costringeva a rifletterci sopra. “Che cosa vuol dire un ospedale che cura i sani e respinge i malati?”. “Ah! Ecco, ho capito! Sarebbe assurdo un ospedale così!” e, infine: “ma è vero, è proprio così! A farcela a scuola sono coloro che non hanno problemi, che imparano in fretta e facilmente, mentre a ‘cadere’ sono coloro che più avrebbero bisogno d’aiuto”. L’uso della metafora dell’ospedale spingeva a ripetersi la frase, a ragionarci, a trovarne e capirne il senso. Non sarebbe stato lo stesso se avesse detto: “Nella scuola chi è già bravo di suo e fortunato ce la fa, ma chi è penalizzato e ha bisogno d’aiuto boccia, e questo è assurdo!”. Una frase così la si capisce subito. È un bel predicozzo su come dovrebbe funzionare una cosa che invece non funziona. La ascolti, la capisci subito e dici: “Tante grazie!” e… la dimentichi subito. C’era in quel modo di porre la questione, di formulare metaforicamente la frase, tutto don Milani: il suo modo di fare lezione, di porre domande anziché dare risposte, di parlare ai ragazzi e di farli ragionare con la propria testa.
Come è nata l’idea di questo libro? Perché raccontare la vita del priore di un piccolo paese di montagna negli anni ’60 ai bambini di oggi?
Sono convinto oramai da anni che la scuola stia fallendo nel suo compito principale. Visto che amiamo tanto i numeri occorre prendere atto che i dati OCSE-PISA (Italia al 34esimo posto nel 2015) così come quelli sull’abbandono scolastico (17,6% - 750.000 ragazzi) e sull’analfabetismo di ritorno (i dati Piaac 2012 ci dicono che solo il 30% degli italiani fra i 16-65 anni capisce cosa legge in modo accettabile e c’è un 30% che non riesce a riferire nulla di ciò che ha appena letto) sono impressionanti. Efficacia e efficienza, performance ed altre parole d’ordine non servono certo taumaturgicamente a migliorare le cose. Che si stia facendo una scuola che genera sofferenza e mortifica il pensiero, l’unicità e la creatività dei bambini e dei ragazzi è certo. Naturalmente ci sono casi in cui la scuola non è così, e questo lo si deve non al sistema ma ai singoli insegnanti appassionati che resistono, che amano il proprio lavoro e i propri ragazzi e studiano ogni giorno un modo per ragionare con loro, per accenderli, affabularli, dargli visione e speranza, recuperare il senso e l’importanza della scuola come luogo dove si diventa cittadini, si impara a pensare, a obbedire certo, ma anche e soprattutto a disobbedire, si esercita la critica, si crea, ci si esprime. Luogo dove imparare a narrare e a narrarsi per trovare le parole giuste, parole che curano, che formano e aiutano a non tenersi dentro il dolore, a superare il disagio, a farci capire non solo “chi siamo”, ma anche “per chi siamo”. La scuola di Barbiana si pone di fronte a noi come un’esperienza ancora esemplare. Parlandone si parla troppo spesso di differenze storiche, di unicità dell’esperienza di Barbiana quasi per lavarsi la coscienza. Per potersi dire: “Erano altri tempi, oggi non è più così, non è più possibile! E poi Don Milani era unico!” Certamente lo era, ma non era l’unico, basti pensare, negli stessi anni, a Mario Lodi, o a Danilo Dolci che recuperando la maieutica di Socrate tenta di rifondare in Sicilia un’esperienza di scuola e di comunità dove porre le domande, chiedere soluzioni, a tutti, anche ai bambini, è più importante che fornire risposte e nozioni uccidendo il pensiero e la capacità critica dei proprio studenti. Ho pensato che se fossi riuscito a raccontare Don Milani e Barbiana, quell’esigenza di scuola nella sua essenzialità, quel modo di amare i ragazzi e di valorizzare il loro pensiero, con poche pagine ma potenti, avrei potuto far riscoprire la lezione di Don Lorenzo a tanti insegnanti e tanti ragazzi. La mia speranza è che il libro aiuti a far conoscere anche a chi non lo conosceva Don Milani, e soprattuto a far venir voglia di leggere e rileggere i suoi scritti cinquant'anni dopo l’uscita di Lettera a una professoressa e, non da ultimo, di tornare a scuola desiderando una scuola diversa da costruire insieme.
Che valore ha la parola scelta come titolo del libro: Maestro?, don Milani è un maestro o un supereroe del parlar chiaro? Tu cosa ne pensi?
I maestri sono importanti. Certo ne abbiamo bisogno. Io mi auguro, che ce ne siano sempre di più di buoni maestri, così tanti da non avere un nome e un volto se non per le famiglie e i ragazzi che li hanno in dono. Questo perché, sinceramente, sono stanco dei supereroi, e di un Paese che ha bisogno di eroi, di figure esemplari, spesso considerate un po’“folli”, di pugni rotanti, di resistenti, di esempi da immolare prima e adorare poi. Anche quando racconto gli eroi nei miei libri tengo sempre a raccontarli da punti di vista che mettano in risalto la loro umanità e fragilità, mettendo loro a fianco persone giuste nella loro normalità. Un altro don Lorenzo Milani, un altro Giovanni Falcone, un’altra Renata Fonte, un altro Peppino Impastato, un altro Danilo Dolci da esiliare, assassinare, denunciare e poi emulare, santificare, adulare, da portare a esempio? Non so se augurarmelo. Quello che so è che a questo punto abbiamo bisogno di tanti silenziosi e anonimi eroi che raccolgano le cose che sappiamo e che i maestri ci hanno insegnato, le cose che abbiamo capito sul fare scuola, e sull’educare e le applichino ogni giorno in tutte le scuole facendo del loro meglio. Abbiamo bisogno di un potere, uno Stato, un Ministero, che capisca la grandezza e l’originalità della pedagogia italiana, della grande lezione dei maestri italiani e su questo si rifondi e si riformi. Non possiamo più seguire acriticamente le mode statiche di paesi europei pedagogicamente arretrati la cui visione fallimentare è offuscata da perniciosi miti quantitativi, aziendalisti ed economicisti.
La nostra scuola è per alcuni aspetti ancora fra le migliori del mondo, nonostante tutto. Occorre guardare al passato e alla grande lezione che dalla Montessori in poi il nostro paese ha messo in piedi negli anni ‘60 e ‘70 con pensatori, designer e maestri straordinari e che gli anni ‘80 sembrano aver spazzato via e dimenticato. Sono sempre di più le nazioni che stanno capendo che così non va e stanno tentando di recuperare un modo di fare scuola che somiglia a quello della scuola di Barbiana nel suo riportare l’attenzione sui singoli e la loro unicità, sul pensiero e la creatività, su progetti che coinvolgano i ragazzi nella risoluzione dei problemi non dopo che avranno imparato, per esempio, la matematica, ma mentre la imparano.
Che cosa dello ”stile” di Don Milani, della sua scrittura, della sua passione per le parole, del suo modo di ragionare, ha influenzato la tua scrittura? Che cosa ha da dire agli scrittori per ragazzi?
Prima di tutto la parola. L’importanza della parola e delle parole. Da scegliere, da comprendere, da capire. Questo aspetto mi lega molto a don Milani e mi piace molto. Se scrivo una storia dove un ragazzino affamato si ferma durante un viaggio per “desinare” con due pere, sono pronto a scommettere che ci sarà subito un editor che mi inviterà a usare una parola meno desueta, come “pranzare”. Ma desinare è una parola bellissima, viene dal latino, la sua etimologia è disieiunaere, rompere il digiuno. Anche la prima colazione in francese dejeuner, viene da lì. Il giovane lettore se la incontra può impararla, può capirla. Conoscere le parole aiuta a ragionare e pensare. “Ogni parola che non capite oggi è un calcio in culo in più che prenderete domani” diceva don Milani. Invece, in gran parte della narrativa di consumo per l’infanzia e per giovani adulti, c’è ben poco di letterario e la logica della semplificazione che insegue il lettore debole dà vita a una vera e propria profezia che si autoavvera. Decisamente non un buon servizio fatto ai ragazzi e a tutti noi. Se le storie per ragazzi sono considerate solo intrattenimento, passatempo, se le si producono in serie, su commissione, con frasi sempre più paratattiche e punteggiature trogloditiche che cosa rimane del nostro lavoro?
Don Milani è un gran retore, che conosce il linguaggio e la parola, ma l’altro aspetto che mi affascina consiste nella sua capacità di togliere e di ridurre al minimo la retorica, intesa nel suo significato di facili effetti, pomposità, fuochi d’artificio. Anche in questo mi ritrovo molto. Nel considerare intelligente il mio lettore, nel sapere che la scrittura è sottrazione, e che la poesia è una cosa e i trucchetti per far sciogliere i lettori “romantici” sono un’altra. Naturalmente di questo atteggiamento si paga lo scotto in termini di lettori e di mercato rischiando di diventare scrittori di nicchia. Ma anche questa è una lezione che ritroviamo in don Milani: l’intransigenza di chi non insegue mode e mercato, ma resta fedele alle proprie idee a all’autenticità della propria voce pagandone le conseguenze.
Come è stato il rapporto con le illustrazioni e con l’illustratore?
Conoscevo l’arte di Simone Massi, avevo visto le sue stupende animazioni e alcuni albi che, sempre per orecchio acerbo, aveva illustrato. Inoltre ho una passione personale per lo scratchboard e per il bianco e nero. C’era nei disegni di Simone, nei suoi volti, nei suoi paesaggi, quel mondo contadino che accomuna le nostre origini. Quando l’ho proposto al mio editore Fausta Orecchio, che, va detto, è anche una delle grafiche editoriali italiane più importanti, mi ha detto subito di sì. Simone ha realizzato un numero di tavole incredibile, fra le quali era veramente difficile scegliere. Fausta ha fatto la selezione. Man mano che mi arrivavano le tavole dicevo la mia, come è normale che sia. Solo in pochi casi le mie considerazioni hanno portato a qualche aggiustamento d’ambiente, l’inserimento di un particolare, ma nella maggior parte dei casi le tavole erano perfette. Ne è nato un libro che ha una sua monumentalità, sia per le dimensioni che per la bellezza delle illustrazioni e, spero, del testo.
C’è una frase di Ernesto Balducci, altro prete fiorentino di frontiera: “oggi Barbiana non è in Mugello, è in Africa, in Medio oriente, in Sud America…” Sembrano parole di oggi, nel nostro tempo di migrazioni e di muri. Che cosa ne pensi?
Mi viene in mente una mamma giapponese che ho conosciuto in un convegno a Lucca. Mi ha detto che lei è venuta in Italia perché una delle sue bambine, afflitta da sindrome di Down, lì non sarebbe potuta andare in una classe normale, ma solo in una speciale. L’Italia, con la sua esperienza e capacità di inclusione, era il paese giusto per lei e l’ha scelto lasciando tutto per non far crescere sua figlia in un mondo parallelo fatto di “bambini speciali”. La nostra capacità e esperienza di inclusione sta facendo scuola nel mondo. È una delle cose che sappiamo fare meglio degli altri, e il reddito e le condizioni di partenza sono ostacoli che superiamo meglio nel formare i ragazzi. Vado spesso a Prato dove la popolazione cinese è aumentata a dismisura negli ultimi anni. Nelle classi ci sono pochissimi bambini cinesi. Sono quelli appena arrivati che non parlano ancora l’italiano, tutti gli altri, indipendentemente dal taglio dei loro occhi, o dalla pigmentazione della loro pelle, sono italiani, addirittura pratesi fin nel dialetto. Io sono molto critico nei confronti della scuola italiana. Critiche costruttive beninteso, che tendono a ridare centralità, importanza e autonomia agli insegnanti spesso demoralizzati e oberati da incombenze che con l’educare hanno ben poco a che vedere, ma su questo e altri aspetti non posso che constatare un successo. Non so se si può parlare di un modello italiano, ma certo la nostra scuola è nella quasi totalità dei casi una scuola aperta e inclusiva. Dov’è oggi il Mugello? Dove i contadini e i pescatori semianalfabeti con cui parlava Dolci? Balducci aveva ragione a rispondere in Africa, in Medio Oriente, in Sud America. Negli ultimi anni della sua vita iniziava a occuparsi di globalizzazione. Oggi può capitare di attraversare un paese del Mugello e trovarsi in Africa, una via di Prato e sentirsi in Cina. Non servirà innalzare muri, barriere, fili spinati. Serve invece frenare il nostro analfabetismo di ritorno, perché non è solo un analfabetismo culturale che incide sul numero di libri letti ogni anno o sulla capacità di decodificare un articolo di giornale, ma è un analfabetismo dei sentimenti, affettivo, che se non contrastato ci porterà a proporre e tentare soluzioni sbagliate e irreparabili.
Hai avuto degli incontri con delle classi, con dei ragazzi sul “tuo” don Milani? Come sono andati gli incontri? Ci sono anche dei malintesi, delle banalizzazioni? Come sono le maestre e le professoresse che incontri?
Per motivi legati alla data di uscita non ho ancora incontrato insegnanti e ragazzi su questo libro, se non quelli che insieme a Franco Lorenzoni abbiamo avuto alla prima presentazione pubblica del libro in occasione del Salone del Libro di Torino. Presentazione che, naturalmente, si è trasformata in una lezione-discussione su don Milani e la disobbedienza che ha visto protagonisti i bambini. Lo farò da settembre nelle scuole e a ottobre in Sardegna con il Festival Tuttestorie. Ho, invece, tramite le recensioni, i social network, gli articoli di giornale e tanti messaggi privati, avuto conferma di come questo libro fosse in qualche modo atteso da tante persone che lo hanno accolto con gioia e con entusiasmo. È stato subito tradotto anche in Francia dove uscirà a giorni. A Sarzana ha ricevuto un Premio come miglior libro ponte fra adulti e bambini in occasione del Festival della Mente. Tante soddisfazioni, ma soprattutto non vedo l’ora di incontrare i ragazzi e i bambini e gli insegnanti per recuperare quell’idea di scuola senza tempo che il libro racconta. Una scuola dove il maestro accende il fuoco e si siede in cerchio con i suoi ragazzi a raccontare storie e a discutere del mondo, li ascolta tutti e, più che dare risposte, pone loro domande. Quando guardo le stelle è questo che de-sidero.
(da LiBeR 116)