Intervista di Carla Poesio a Oliver Jeffers, pluripremiato creatore di albi illustrati, noto per i suoi personaggi dallo stile minimalista
Oliver Jeffers, nativo australiano residente negli Stati Uniti, è un autore e illustratore di libri per l’infanzia che ha raggiunto il successo fin dalla sua pubblicazione d’esordio, Chi trova un pinguino... (Zoolibri, 2010). I lavori successivi hanno continuato a confermarne capacità e maestria, conquistando pubblico e critica per contenuti e cifra stilistica.
Il suo essere autore e illustratore di picturebooks invita a sapere e a capire come si svolge il processo creativo di questi suoi libri. Le chiedo quindi:“L’idea folgorante”, il primo momento creativo si manifesta, nella sua mente, come un’immagine appena abbozzata del protagonista (o di più protagonisti) delle pagine future di un libro oppure è un gesto, un’azione, un atteggiamento, quello che le salta in mente e che, più tardi, affiderà a un personaggio di sua invenzione? Qual è l’embrione di un personaggio o della sua storia e la loro gestazione, prima che venga al mondo il neonato libro?
Per quanto riguarda il processo creativo dei miei albi illustrati, la loro genesi non ha una formula fissa. Sono libri diversi l’uno dall’altro. La loro origine non ha un punto determinato; vengono da un “nessun luogo”.
In alcuni casi era l’immagine del personaggio che veniva per prima. Per esempio Quest’alce è mio! cominciò col personaggio dell’alce e la storia venne dietro via via. Nei guai, invece, cominciò con l’idea di un incidente: quello dell’aquilone che rimane incastrato. Lo stesso accadde con L’incredibile bimbo mangia libri. C’è una totale differenza tra i due tipi di genesi: immagine del personaggio o evento. Dipende da qual è l’essenza della storia e dal suo punto di partenza, che può essere uno qualunque.
Può darsi che Jeffers, con gli Ughi, abbia cercato di trasmettere ai suoi lettori un “mini-invito” ad arricchire l’identità dei suoi personaggi con un tratto di matita, un tocco di colore, un piccolo dettaglio visivo, con qualcosa, insomma, che suggerisca una opinione, un timore, un desiderio da parte del personaggio rappresentato? Che lo renda, a esempio, così eloquente come uno di quegli Ughi che desiderano ardentemente di vedere la mosca stecchita?
L’accettazione di questo mini-invito non significherebbe che il bambino lettore entra in pieno dentro la storia, si fa coinvolgere nel suo svolgimento, nel suo clima? Non pensa che una “collaborazione” come questa tra autore e lettore sia alla radice di ogni lettura, fino all’età adulta compresa?
Sì, questo è vero soprattutto con Gli Ughi. Infatti ho cercato di presentarli nella loro forma più semplice. Gli Ughi hanno cominciato a vivere con un duplice obiettivo: prima, quello di presentare certe informazioni un po’ noiose e, poi, farle apparire interessanti.
Negli Ughi ho visto subito un potenziale efficace insito nel loro modo di stare insieme, nel loro comportamento reciproco, nella possibilità di adattare il loro mondo a quello dei concept books.
Perciò, all’inizio, stavano diventando un libro “sugli opposti” oppure “sulle forme”, ma in seguito ho sentito il bisogno di far ben cogliere ai lettori il loro mondo, il loro essere uguali l’uno all’altro, il loro amore per una quotidianità semplice. Da qui sono passato all’idea della maglia nuova: un espediente, questo, che portava un tocco di diversità senza mai alterare la semplicità dell’insieme. Non è facile proporre dei personaggi semplici il più possibile, ma l’ho fatto. Non ho messo più di tre righe di testo su una pagina, ma queste tre righe contano più che se fossero trecento. Dunque ho cercato di lasciar fuori quanto più potevo, perché credo che lasciar fuori sia più importante che metter dentro.
Facendo così si può veramente rivolgere al lettore un invito a entrare dentro la storia. Non c’è mai un’indicazione di un luogo determinato da cui i miei personaggi vengono fuori. Non preciso mai una località. Lasciando un’atmosfera vaga alle vicende della trama stimolo i lettori a penetrare meglio nella storia.
Pensa che a un giovane lettore piaccia “il personaggio che ritorna” da un libro a un altro e a un altro ancora con le sue caratteristiche fisiche ed anche con i primi elementi di una personalità?
Quindi un terzo o un quarto libro con gli Ughi dovrebbe aver gradimento di pubblico come è avvenuto con Elmer, l’elefante variopinto di McKee o la principessina capricciosa di Tony Ross? Secondo lei, è l’aspettativa dei lettori e il loro piacere per un re-incontro quello che ispira la sua matita oppure è lei che, innamorato di un suo personaggio, ama essergli fedele?
Mi sento un po’ imbarazzato a rispondere, perché penso che sarebbe disonesto per un autore prendere in considerazione soprattutto le aspettative dei lettori, trarre profitto dalla popolarità di un personaggio e non tenere giusto conto del fatto che è l’autore stesso a esserne veramente innamorato.
Personalmente ho sempre esitato di fronte al “ritorno” di qualcuno dei miei personaggi. Mi sembrava un opportunismo che non avrebbe portato alcun vantaggio alla nuova storia. Agli inizi della mia attività avevo ideato tre libri con un bambino come protagonista e benché ci fosse un reale interesse per un altro libro ancora con questo tipo di personaggio, non l’ho voluto realizzare. Mi pareva una forzatura.
Un giorno, però, mi è venuta in mente una storia che mi pareva interessante e così, al di là dell’amore per questo personaggio bambino, ho acconsentito al suo ritorno.
A prescindere dal “ ritorno” degli Ughi, va ricordato che c’è un personaggio onnipresente in ciascuno dei miei libri. È come un piccolo cameo che appare sullo sfondo dell’illustrazione. Si tratta di un minuscolo pinguino. Cercatelo: lo troverete sempre. Per me è la prova che il ritorno di un personaggio è dovuto, più che alle aspettative dei lettori, all’amore che l’autore sente per lui. Ne avrete conferma in un mio prossimo libro in cui ritornerà l’alce, un personaggio a cui voglio molto bene…
Lei si sente soprattutto, credo, un autore-illustratore, ma ha accettato anche di illustrare libri scritti da un altro scrittore. Quando le hanno fatto questa proposta come ha impostato il suo lavoro?
L’uso della lingua in questo caso ha un valore particolare. No, io non mi chiamo autore-illustratore. Non mi considero mai uno scrittore, perché conosco tanti buoni scrittori e ne so abbastanza per non volermi appropriare di questa qualifica. Sento, piuttosto, di essere un artista e un narratore di storie. Nell’ambito dell’albo illustrato mi considero un creatore di questo tipo di libri, perché non c’è una linea di netta separazione tra immagini e parole. Sono perciò un artista che usa le parole nella sua narrazione.
Generalmente non accetto la proposta di lavorare insieme a un altro. L’ho fatto con Boyne perché ci conoscevamo da tempo e ci trovavamo d’accordo. Nel caso del suo ultimo libro, Resta dove sei e poi vai, io ero occupato nel terminarne uno mio e lui doveva affrettarsi a finire il suo giacché era vicinissimo il centenario della prima guerra mondiale e il libro doveva essere pronto per l’anniversario, poiché quel conflitto è il suo tema centrale. Per questo mi sono limitato a illustrare la copertina.
Nella pagina dietro il frontespizio di Resta dove sei e poi vai è scritto che sono opera sua la copertina del libro e il tracciato di quello che intende essere il titolo di ogni capitolo. Una nota finale del traduttore del libro in italiano ci informa che questi brevi titoli rimandano a canzoni popolari tra i soldati britannici durante la prima guerra mondiale. Che cosa ha pensato di questa scelta da parte dell’autore del libro oppure dello staff dei redattori della casa editrice? Ed è sua l’idea di eseguire un tracciato grafico che sembra la scrittura di una mano malferma, una calligrafia irregolare che sale e scende, che esprime uno stato di depressione? Voleva forse esprimere il senso di incertezza, di timore, di dramma che domina nella maggior parte delle pagine?
L’idea di usare versi di quelle canzoni popolari come titoli dei vari capitoli spetta interamente a John Boyne. Quanto al tracciato grafico in testa a ogni capitolo (e forse la mia risposta la lascerà delusa) non ho fatto altro che usare la mia calligrafia abituale.
Quello che lei ha sentito nella mobilità del mio tracciato è casuale, però mi rendo conto che ha funzionato bene.
(da LiBeR 103)