Il dibattito sui rifacimenti dei classici è ormai annoso: qualcuno pensa che in caso di opere ritenute inaccessibili ai ragazzi sia meglio renderle leggibili piuttosto che niente e c’è chi è irriducibilmente convinto che l’originale non vada mai toccato. E se non si tratta di un classico? Ah, scappa Pipì…
Ridurre, riscrivere, riformare, ossia in definitiva reiterare con varianti a-creative un classico, mi fa pensare a quei cagnetti in cui l’eccitabilità è pari solo alla piccolezza che s’agitano abbaianti intorno a un cane grosso mentre questi perplesso li contempla dalla propria inattaccabilità. Alla fin fine non accade niente di sostanzioso, a parte - s’intende - eventuali morsicini miseri e passeggeri. Il classico resta incolume, perché molta, tantissima gente è informata su come sia fatto davvero: ad esempio sa che magari è lungo, prolisso nelle descrizioni, fitto talora di termini desueti (qui si parla ovviamente dei classici non moderni) e comunque lontano dal modulo attualistico con cui viene presentato nella nuova versione.
Prendiamo il caso di Pinocchio: quante volte è stato rimaneggiato ad usum puerorum? Tante, troppe ma senza che il libro originale, con i suoi sagaci fraseggiari toscaneggianti, ne venisse scalfito nella memoria di lettrici e lettori. Amato, diffuso e straconosciuto è stato e verrà in ogni modo letto prima o poi nella stesura reale ed è questa che rimarrà impressa.
Le cose però cambiano e assumono connotati più inquietanti quando a essere sottoposta a chirurgia estetica - cioè a un processo di omologante odiernizzazione - è un’opera minore, quindi sconosciuta ai più e sicuramente ignota ai meno adulti. E peggiorano ancora quando si scopre che: a) è breve e non necessitava quindi di accorciamenti per poter essere accomodata alla “capienza” - ammesso sia scarsa, Harry Potter sogghigna - dei giovanissimi; b) è rivolta agli ultrasettenni, i quali nel leggerla avrebbero incontrato la stessa difficoltà che avrebbero avuto con Pinocchio, a cui è simile anche nel contenuto (cioè nessuna); c) era stata presentata anni fa in versione originale da un altro editore, con poche note esplicative, per i “dai 9 anni”.
Stiamo parlando del collodiano Pipì (1883-’85), edito appunto da Piemme nel 1993 con il suo titolo d’autore Pipì, lo scimmiottino color di rosa e ripubblicato ora da EL come Pipì. Lo scimmiotto rosa nell’adattamento di Roberto Piumini per quei bambini e bambine che non potevano aspettare di crescere ancora due anni, dai 7 ai 9, senza averlo letto… Motivazione in sovraccoperta: “la lingua dello scrittore toscano era fresca e vivace, adatta, però, ai bambini del suo tempo; è per questo che un Collodi contemporaneo l’ha resa accessibile ai lettori di oggi, conservandone il ritmo narrativo”. Tutto dichiarato, quindi corretto, ma è inevitabile chiedersi se fosse utile, augurabile, indispensabile un’operazione come questa.
A Piumini - già avvezzo del resto ad adattamenti collodiani - è parso evidentemente lo fosse e con audace spudoratezza si è dato daffare a togliere toscanismi e diminutivi, appiattir lo stile, sostituire o glissare termini obsoleti o difficili (canzonatura, pizzicorino, tranvai, piagnisteo, singolarissima, sgangheratamente, trapelare, visibilio, lestezza vertiginosa…) oppure troppo ripetuti e a estirpare qualsiasi forma di frizzo, sugo, sapidità, ricchezza linguistica e in alcuni punti perfino di humour e horror. La frase “quell’odore era per lui come un libro stampato: non ci capiva nulla” smarrisce la fulminante ironia quand’è ridotta a “non ci capiva nulla”. Dire “ecco la pioggia” dopo aver mostrato la catinella che lo scimmiottino - in veste casuale d’imperatore - sta per gettare sui sudditi toglie l’effetto sorpresa al corrispondente brano di Collodi in cui Pipì la fa vedere soltanto dopo aver esclamato “eccovi la pioggia”. E il brigante Golasecca: quanta efficacia espressiva ha perso quando il suo “grugnito di feroce allegrezza” è stato limitato al magro “con allegrezza”? Ma altro ancora si potrebbe dire.
Il rischio in tutto ciò è che questo Pipì resti nell’immaginario della lettura infantile come l’originale. Non sarebbe stato meglio allora per lo stesso Piumini, che ne ha tutte le capacità, creare un libro nuovo? Perché non si ormeggia al suo vero mestiere, che è scrivere e non riscrivere?
Selene Ballerini
(da LiBeR 64)