di Fabio Geda
Raccontare storie
Raccontare storie è sempre stato, per me, un gesto involontario, così come involontario è il muscolo cardiaco. Ora che è diventato un mestiere tento di governarlo, di gestirlo in modo consapevole, ma ciò non toglie che imbastire scenari narrativi sia qualcosa di indipendente dalla mia volontà. Prima ancora che potessi attribuire un nome a ciò che stavo facendo mi capitava, durante un viaggio in macchina con i miei genitori, o a scuola, durante una lezione particolarmente noiosa, di scivolare, come si scivola in acqua, e di ritrovarmi trascinato via dal flusso di una storia. La cosa straordinaria era che quella storia accadeva dentro di me, ma anche fuori di me, davanti ai miei occhi. E io ero nella storia non perché fossi il protagonista, ma perché la vicenda era un riflesso dei miei desideri e delle mie paure. Con quelle storie sognate a occhi aperti cercavo di comprendermi e di comprendere il mondo, e, per citare Walt Whitman, d’intuire con quale verso avrei potuto contribuire al “potente spettacolo”.
Detto questo, leggo e racconto storie perché sono curioso. Vorrei vivere un milione di vite e tutte diverse. E visto che invece non posso fare altro che essere me stesso, affido alla magia della narrazione l’occasione che la biologia mi nega: diventare altro da me. Ho presto capito che l’unica possibilità che avevo per solcare i mari su una nave pirata erano le storie; che l’unica possibilità che avevo di scoprire un nuovo continente erano le storie; che l’unica possibilità che avevo di essere un giorno un chirurgo, il giorno dopo un architetto e il giorno dopo ancora un paleontologo, un astronauta o un vigile urbano, erano le storie.
Inoltre, quando ho capito che non avrei potuto fare altro che vivere una sola vita, la mia, ho cominciato a cercare nella letteratura, nel cinema e nella musica l’opportunità di accumulare esperienze prima che queste si presentassero: per arrivarci meglio attrezzato. Letteratura, cinema e musica sono dei simulatori di realtà – lavorare, amare, scegliere, persino morire – aiutano a vivere il presente con più consapevolezza, rafforzano l’ego e allo stesso tempo lo relativizzano, mentre le strade sono piene di persone dall’ego fragilissimo, affamate di conferme, e che nonostante questo si sentono assolute. Le narrazioni in cui siamo immersi influiscono sulla formazione dei cittadini. Le nostre opinioni su ogni cosa germinano dalle storie di cui ci nutriamo, e sulla base di quei racconti, di una certa idea di mondo, andiamo a votare, a fare la spesa e interagiamo con il nostro prossimo.
Volessi spingermi più in là, direi persino che le storie preparano ai lavori del futuro, quelli che le macchine faranno più fatica a fare perché richiedono empatia, creatività e capacità di negoziazione: qualità che un lettore allena ogni volta che ficca il naso dentro un buon libro.
Insomma, se eravate interessati a sapere perché accidenti faccio questo mestiere, le ragioni sono queste. Ma perché, invece, scrivo ciò che scrivo? Perché, per esempio, mi rifugio in un acuto realismo anche quando affronto scenari post-apocalittici alla Berlin? Perché mi sono ritrovato a scrivere soprattutto di ragazzi che crescono, di dialogo tra le generazioni e di fughe? Questo proverò a spiegarlo con l’aiuto di sei parole chiave.
Assenza
La prima parola è assenza, intesa soprattutto come assenza di genitori e a volte, in generale, di figure adulte; ma adulte non tanto da un punto di vista anagrafico, quanto etico e morale. Adulti come luoghi dove rincasare e come fari che indicano la strada ai figli di ritorno dai loro corpo a corpo con la vita. Adulti che a quel corpo a corpo sappiano attribuire un significato e nel cui sguardo i ragazzi possano rispecchiarsi e riconoscersi degni di fiducia. Adulti di fronte a cui i bambini possano tornare a essere bambini. Come Ralph, nel Signore delle mosche di William Golding, che quando, alla fine del libro, crolla a terra stremato ai piedi dell’ufficiale di marina, scoppia finalmente in un pianto dirompente e selvaggio, per la morte di Simon e Piggy, per la perdita dell’innocenza e per la definitiva scoperta del male che risiede in ciascuno di noi.
Togliere gli adulti da una storia è il modo migliore per verificare cosa, del loro esempio, si è sedimentato nei ragazzi che li hanno osservati. È ciò che accade ai protagonisti di Berlin,o a Zeno dell’Ultima estate del secolo,che tuttavia tra le altre cose approfittano di quel tempo nuovo per mettersi alla prova, rigiocarsi, svelarsi,stringere nuove alleanze.Da questo punto di vista l’assenza degli adulti non è sempre e solo terra bruciata, perché offre, in tempi e modi differenti, la possibilità di liberare sacche di creatività e scoprire nuovi pezzi di sé. Solo, dovrebbe capitare in modi e tempi non traumatici. Gli adulti dovrebbero imparare a esserci quando servono e a sparire quando non servono, mentre hanno la misteriosa capacità di sparire quando servono, e quando ci sono di muoversi come elefanti in cerca di cibo. Da dove arrivano queste riflessioni? Dai dodici anni trascorsi a occuparmi di disagio minorile, prima come educatore di territorio, poi in comunità alloggio. Anni in cui il mio lavoro si è trasformato prima in passione e poi in ossessione. E le ossessioni, come certamente sapete, sono il combustibile preferito dall’immaginazione.
Solitudine
La seconda parola è solitudine. Se c’è una qualità condivisa dai protagonisti delle mie storie, è la capacità di vivere la solitudine in modi creativi: riflettono, immaginano, costruiscono. La solitudine per Emil, protagonista di Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, è un modo per misurare lo spazio e decidere a cosa e a chi avvicinarsi. Stessa cosa per Corrado dell’Esatta sequenza dei gesti. Mentre Zeno dell’Estate alla fine del secolo ne approfitta per usarla come una bussola per orientarsi nel mondo.
Se c’è un problema, uno, che addebito alle nuove tecnologie, ai social network, è l’equivoca sensazione di compagnia che allevia la fatica dell’introspezione, offrendo una continua via di fuga da sé e dai propri pensieri per immergersi nel flusso delle vite altrui, arrivando paradossalmente ad acuire il senso di esclusione: come se fuori, nel mondo, stessero accadendo cose meravigliose e noi ce le stessimo perdendo. Ma le cose meravigliose accadono con frequenza maggiore dentro di noi. E se siamo troppo concentrati sul fuori, su ciò che capita agli altri, rischiamo di perderci i fuochi d’artificio che la solitudine sa far esplodere nell’intimità.
Pensiamo a ciò che succede, per esempio, a Gerald Durrell nei cinque anni trascorsi a Corfù raccontati nel libro La mia famiglia e altri animali. Se lo avete letto, vi ricorderete come le continue esplorazioni del piccolo Gerry in giro per l’isola risuonino nell’esplorazione della propria famiglia e in quella di sé – di sé come terra straniera. Toccare le pietre è toccare la propria anima. Le ore che Gerry trascorre da solo a catturare insetti sono finestre spalancate sulla meraviglia. Gli incontri con le persone sonoincontri con delle persone.
È la magia della contemplazione. I campi che scorrono oltre il finestrino, il bosco dietro casa, la frammentazione dei paesaggi urbani; le occasioni per lasciare che il mondo si rifletta nel nostro sguardo, e noi in lui, sono infinite, e non serve altro per comprendere la bellezza e la complessità di quell’organismo vivente che chiamiamo Terra. Da ragazzo ho avuto la fortuna di intrecciare il mio cammino con quello di persone che mi hanno stimolato a fare esperienza del deserto. Non quello di sabbia. Intendo quello spazio di solitudine tipico di una certa ricerca spirituale. Ne ricordo uno in modo particolare. In Toscana. Avrò avuto diciassette anni. Una mattina, durante un campo di formazione, ci consegnarono una cartina con il percorso che avremmo dovuto fare a piedi, da soli: una serie di viuzze secondarie perse tra filari di salici, piccoli cimiteri di campagna, cascine e villette. Sulla mappa era indicato il punto dove ritrovarci a fine giornata. Avevamo un panino, una mela, un quadretto di cioccolato. Era giugno. Ricordo che camminai a lungo, accompagnato dall’abbaiare dei cani e da un vento fresco e costante, e che a un certo punto, pensando di essermi perso, chiesi indicazioni a una signora che stava passando in bicicletta. Mangiai il panino, la mela e il cioccolato seduto su una panchina, sotto alcuni grossi alberi che facevano da quinta a un cimitero – i cimiteri, i viandanti lo sanno, sono posti buoni per sostare perché al loro interno c’è sempre una fontana o un rubinetto per rifornirsi d’acqua. Non parlai con nessuno. Lessi i brani che ci erano stati assegnati e lasciai che il pensiero seguisse percorsi non stabiliti, permettendogli di fluttuare tra l’odore della campagna e le riflessioni personali. Ne ricavai una sensazione di pace profonda e di ancora più profonda comprensione di me e del creato. Per anni ho pensato a quella giornata come a una delle più intense della mia vita da ragazzo.
Ricordi
La terza parola è ricordi. Come quello che ho appena condiviso. La questione è semplice: i ricordi punteggiano le vite dei miei personaggi, come certe pietre grosse nei muretti a secco. Sono ciò che sostiene quella materia friabile che chiamiamo presente. Sono la strada fatta, il luogo e le relazioni che ci hanno plasmato, i successi e i fallimenti. I ricordi possono essere fardelli insostenibili o un massaggio per lo spirito. I ricordi, ovviamente, condizionano la nostra vita. Hans Schwarz, il protagonista di L’amico ritrovato di Fred Uhlman, vive con il rimpianto di non essere riuscito a far cambiare opinione al suo amico Konradin. Immaginate un ragazzo ebreo che per tutta la vita immagina che l’anima gemella, il ragazzo con cui ha intrecciato la più straordinaria e commovente delle amicizie, sia stata corrotta dal nazismo, tranne poi scoprire, da vecchio, che non è così. Pensate al peso di quel ricordo e poi alla gioia del suo ribaltamento. Pensate a quanto, quelle memorie, devono aver influito sulla vita di Hans.
Di ricordi sono intessute molte delle storie che ho scritto. Enaiatollah, nel libro Nel mare ci sono i coccodrilli, durante i suoi cinque anni di viaggio dall’Afghanistan all’Italia, per alleviare il dolore decide di smettere di pensare alla madre e ai fratelli, richiamandoli alla memoria solo una volta raggiunto un luogo da chiamare casa. Ma spesso si siede vicino alle scuole, durante l’intervallo, per ascoltare il rumore dei giochi dei coetanei e ricordare quando anche lui era uno di loro, e onorare il sacrificio del suo maestro. Nonno Simone, ne L’estate alla fine del secolo, ripercorre la sua vita per affermare il proprio diritto a esistere, lui che era nato ebreo il giorno esatto della promulgazione delle leggi razziali. I ragazzi di Berlin tornano di continuo con la memoria a prima dell’epidemia in cerca di indicazioni e consigli. Il primo libro finisce con Jakob che va a dormire in quella che è stata la sua casa, nel letto matrimoniale dei genitori, come se il letto avesse conservato la loro impronta.
Fuga
La quarta parola è fuga. E a pensarci, se solo avessi uno psicoanalista, sarebbe argomento da psicoanalisi. Emil, il protagonista del libro Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, fugge da Torino e attraversa mezza Europa. Marta e Corrado, i protagonisti de L’esatta sequenza dei gesti, fuggono per rifugiarsi in montagna. Enaiatollah fugge dall’Afghanistan e attraversa cinque nazioni. Non è una fuga quella di Zeno de L’estate alla fine del secolo, ma comunque è costretto a lasciare casa sua in Sicilia per andare a vivere con il nonno in Liguria. Andrea, il protagonista di Se la vita che salvi è la tua, va a New York e decide di non tornare più in Italia. Ora, mi capita di andare in giro per le scuole e che gli studenti debbano scrivere dei temi sull’incontro e già immagino, prima o poi, la traccia a partire dalla scottante domanda e tipica paturnia esegetica: ma da che accidenti fugge, il Geda? Ecco, il giorno che un malcapitato studente dovesse arrovellarsi su questa domanda, spero gli venga in mente una cosa che sono certo di aver scritto ne L’esatta sequenza dei gesti, ma forse anche in qualche altro romanzo, ossia che non è tanto importante da dove si fugge, quanto verso cosa. È la direzione che conta. Tutti scappiamo da, ma non tutti scappiamo verso. Il vero salto nella vita di ognuno, che è poi la grande trasformazione di Andrea Luna in Se la vita che salvi è la tua, avviene quando capiamo o accettiamo la nostra vocazione, quando finalmente, dopo averlo lasciato squillare per anni, troviamo la forza di alzare quel dannato telefono e di accettare la chiamata. Che è una consapevolezza non da poco, visto che le storie, io credo, educano alla complessità del mondo aiutandoci a scrivere la storia più importante di tutte: la storia del nostro futuro.
Libri
La quinta parola è libri. Una cosa che diceva Italo Calvino è che scriviamo per rimettere in circolo idee e ideali, visioni e previsioni che altri prima di noi hanno trasformato in racconti. Le storie sono per lo spirito quello che il cibo è per il corpo: le ingeriamo, le consumiamo e le trasformiamo in azioni quotidiane. Per questo abbiamo bisogno di romanzi sempre nuovi, perché non esistono libri definitivi, film definitivi, canzoni definitive, così come non esiste un piatto di pasta definivo, quello che, dopo che l’hai mangiato, non avrai mai più bisogno di mangiare un piatto di pasta. È vero, alcuni romanzi resistono e restano freschi per molto tempo, permettendo a molte generazioni di lettori di nutrirsene; ma la maggior parte no, la maggior parte ha una data di scadenza. Motivo per cui, nonostante tutti i libri che sono già stati scritti, nonostante tutti i film che sono già stati girati, abbiamo bisogno di scriverne e di girarne ancora. Storie che catturino il nostro tempo in modo sempre più esatto, che parlino a noi, in questo momento.
Per questo nei miei libri sono spesso riconoscibili, citati, intrecciati, i libri e i film di chi mi ha preceduto e su cui mi sono formato. E per questo rispondo sempre di sì quando qualcuno mi chiede di partire da una storia mia per farci qualcos’altro. Penso a uno spettacolo teatrale costruito mescolando Nel mare ci sono i coccodrilli con Le mille e una notte.O un altro che ha usato passaggi di un mio racconto sul carcere minorile di Torino facendoli cortocircuitare con altri testi sull’educazione e sulla segregazione. È un modo, per me, per affermare la mia volontà di appartenere a quel flusso. Un modo per dire che le storie sono mie solo fin tanto che le sto scrivendo, e poi non più. Che ogni cosa è trasformazione.
Pericolo
La sesta e ultima parola è pericolo. Uno dei libri che hanno segnato la mia infanzia e in cui il pericolo è più presente è Il libro della Giungla di Rudyard Kipling. Un bambino da solo nella Giungla, allevato da un branco di lupi e con una tigre che vuole mangiarselo. Adoro le storie in cui c’è del pericolo, quella sottile tensione che attraversa ogni frase, come se stessi camminando su un campo minato. E mi piace il racconto del male. Primo, perché il male esiste, e secondo, perché non esiste mezzo migliore per indagarlo della letteratura. Le parole possono dire l’indicibile, entrare in luoghi e restituire verità che altri mezzi, le immagini ad esempio, renderebbero subito volgari, voyeuristiche. Mowgli alla fine riuscirà a sconfiggere il male, Shere Khan, perché, come ha detto Chesterton: “Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini lo sanno già che i draghi esistono. Quello che raccontano le fiabe è che i draghi possono essere uccisi”.
Il fatto è che i draghi a volte prendono forme inattese. Il titolo della storia di Enaiatollah, per esempio, Nel mare ci sono i coccodrilli, si concentra proprio su questo, sui falsi pericoli che rischiano di attirare l’attenzione degli innocenti distraendoli dai pericoli veri. Enaiat è su una spiaggia lungo le coste della Turchia e sta per attraversare quel tratto di mare che separa il continente da Lesbo, la più vicina delle isole greche. Mentre sono su quella spiaggia, uno dei ragazzi con cui sta viaggiando, il più piccolo di tutti, si mette a piangere e dice che non vuole partire: ha paura dei coccodrilli. Lui non lo sa che nel mare non ci sono i coccodrilli e che i pericoli sono altri: le onde alzate dai traghetti di passaggio, per esempio. E che se uno non sta attento, quando le onde sollevate dai traghetti raggiungono il canotto, rischiano di farlo sgroppare, come un cavallo, e di farti cadere in acqua. E se hai dieci anni, e sei un ragazzino afghano che non hai mai visto il mare, e non sai nuotare, e cadi nel Mediterraneo di notte, muori. Ed è esattamente ciò che succede. I cinque ragazzini partono, incrociano un traghetto, le onde raggiungono il canotto, invisibili, uno di loro non fa in tempo a tenersi, cade in acqua e affoga. Le fiabe raccontano che i draghi possono essere uccisi, non che sia scontato ucciderli. E anche se la vita ci dimostra che, alle volte, sono i draghi a vincere, non per questo bisogna smettere di combatterli.
Un’ultima riflessione
Da che mi ricordo ho sempre scritto con la stessa urgenza con cui leggevo. Leggere e scrivere formano, nella mia vita, un unico gesto: come inspirare ed espirare. Per questo quando ho iniziato a scrivere ho sempre cercato di scrivere libri che avrei voluto leggere, così come cerco di leggere quei libri che vorrei saper scrivere. Quando mi sono occupato di ragazzi l’ho fatto pensando di rivolgermi a un lettore come me, e quindi a un lettore adulto. Poi ho scoperto che non era così, e che in realtà arrivavo anche a lettori più giovani. Da quel momento ho cercato di avvicinarmi a loro in modo sempre più consapevole. E ho provato a farlo con rispetto, in punta di piedi. Perché se c’è una cosa, una sola, che mi sembra di aver capito in questi anni, è che, come diceva Buzzati: “Scrivere per ragazzi è come scrivere per adulti. Solo più difficile»”.
(da LiBeR 114)