Anna Antoniazzi
Apogeo, 2007, 175 p.
(Territori della comunicazione)
€ 15,00
Aprendo il vaso di Pandora dei videogiochi, si scopre inaspettatamente che una gran parte dei titoli – anche fra quelli più conosciuti – ha a che fare con la narrazione, e in particolare con la fiaba, il mito, l’avventura. Dalle atmosfere delle mille e una notte al giallo metropolitano, dalle spy stories più classiche alle ambientazioni gotiche del noir, dal Giappone degli antichi samurai al deserto in cui si muovono i picari contemporanei, dalle utopie della fantascienza alla concretezza del vivere quotidiano, nessun topos immaginativo viene tralasciato, o emarginato, dai videogame narrativi dei quali i bambini e i ragazzi sono destinatari privilegiati, anche se non esclusivi.
Nasce di qui la necessità di adottare filtri particolari che permettano di cogliere l’originale valenza educativa dei prodotti interattivi e di svelarne la capacità di aprire orizzonti di senso inusuali rispetto alla quotidianità
L’autrice
Anna Antoniazzi è dottore di ricerca in Pedagogia e assegnista presso la cattedra di letteratura per l’infanzia all'Università di Bologna. Ha collaborato a diversi volumi ed è autrice di Romagna incantata (Il Ponte Vecchio, 2003).
La recensione
di Roberto Farnè
Gioco e narrazione sono due campi d’esperienza di cui conosciamo le rispettive specificità, le modalità d’uso e le funzioni. Possiamo parlare, dal punto di vista pedagogico, di due differenti “dispositivi” che consentono al bambino di entrare in relazione, per vie diverse, con la realtà e con l’immaginario, e all’educatore di proporre situazioni e relazioni suggestive e formative. Eppure, gioco e narrazione nell’esperienza infantile, ma non solo, arrivano anche a confondersi l’uno nell’altra, fino a rendere difficile distinguere i rispettivi confini. Pierre Parlebas, fra i massimi studiosi del gioco infantile nelle forme tipiche della sociomotricità scrive che “se il racconto impone lo svolgersi di una storia, il gioco è ancora tutto da giocare. Il bambino nel gioco sta al timone della storia: la modifica nel corso degli avvenimenti”. Parlebas arriva al cuore della sua posizione: “‘I personaggi delle fiabe non sono ambivalenti’”, sottolinea Bettelheim quando nota che ciascuno di essi ‘è buono o cattivo’. Al contrario il gioco permette spesso delle sfumature, delle ambiguità e anche il voltafaccia. L’ambivalenza è presente nei comportamenti ludici … Il gioco non è manicheo come la fiaba e immerge il bambino in una semantica affettiva meno rassicurante” (Giochi e sport, Il Capitello, 1997).
Alla linearità ordinata (o apparentemente dis-ordinata) della narrazione, si contrappone la complessità reticolare del gioco, il cui finale non è già scritto (altrimenti che gioco sarebbe…) e la cui trama è appena accennata da un impianto normativo di poche regole. Il bambino che sprofonda nella suggestione di una storia, con tutto il complesso di emozioni che questo “gioco” comporta, sa comunque che ne verrà fuori vincitore; il bambino che si immerge totalmente in un gioco non sa cosa lo aspetta e se ne uscirà vincente o perdente (il che fa la differenza…). Così diverse, eppure così strettamente legate, gioco e narrazione diventano persino metafore dell’esistenza, paradigmi che a disposizione del soggetto per dare senso (o non-senso) alle umane vicissitudini, perché la formazione dell’uomo fin dalla sua infanzia, è normalmente e continuamente intessuta di esperienze ludiche e narrative. Il gioco come testo e il testo come gioco, nelle loro rispettive finzioni, sono fra le esperienze più concrete e reali che a un bambino è dato vivere.
Gioco e narrazione sono inoltre attraversate da continue mutazioni, poiché i modi di raccontare e di giocare sono soggetti alle evoluzioni dei media che li supportano e delle tecnologie ludiche o comunicative. In questo senso, i videogiochi rappresentano l’esito più recente e più versatile di una riconfigurazione culturale sia del gioco sia della narrazione, stressati da nuove tecnologie, da sollecitazioni interattive, da potenti apparati virtuali tali da far apparire ogni finzione più vera del vero. Anna Antoniazzi, con il suo libro Labirinti elettronici (Apogeo, 2007) entra a piene mani in questa con-fusione multimediale dove il videogioco potrebbe sembrare una sorta di shaker che mescola e agita insieme diversi ingredienti (gioco e fiaba, testi e figure, mitologie e trame…) versando alla fine nello schermo-contenitore un prodotto blended il cui gusto ludico e narrativo non è semplicemente riducibile alla somma dei suoi ingredienti.
Quanta letteratura per l’infanzia c’è nei videogiochi che sviluppano affabulazioni, e che sono un segmento significativo di questa produzione massmediale?
Molta, secondo Anna Antoniazzi: per riferimenti diretti o indiretti, per strutture narratologiche o topologiche. Ma non si tratta solo di cogliere in questi giochi una nuova forma di storytelling; la tesi dell’autrice, abile narratrice essa stessa poiché ce la svela solo nelle ultime due pagine, è che i videogame si pongano proprio “al culmine della disgregazione delle trame dei racconti”, per cui i videogame narrativi sarebbero “la risposta forte e audace a una mancanza che, come linea di tendenza, si perpetra da più o meno un secolo: la mancanza di trame solide e ben riconoscibili all’interno del romanzo e del racconto”. I videogiochi arrivano dunque a riempire un “vuoto di storie” e per farlo succhiano l’anima ai grandi repertori delle narrazioni, li svuotano e li ripropongono in versioni inimmaginabili fino a pochi anni fa. Su questo tema J.C. Hertz (Il popolo del joystick, Feltrinelli, 1998) ci ha dato alcune analisi davvero illuminanti, in particolare quando mette in evidenza le contaminazioni fra comics e videogame, suggerendo l’idea che i fumetti “sfumino” nei videogiochi.
Dotato di una scrittura robusta e avvincente, e di un apparato critico di tutto rispetto, il lavoro della Antoniazzi in realtà è un rigoroso saggio sulla letteratura per l’infanzia, più che sui videogiochi. O meglio: i videogiochi diventano un formidabile dispositivo per compiere un excursus sui grandi temi (figure, luoghi, trame…) della letteratura per l’infanzia che, insieme al cinema, si rivela come l’autentico oggetto d’amore oltre che di studio dell’autrice. Tutto ciò per dimostrare che proprio i videogiochi, a dispetto di un certo pessimismo pedagogico che piange anzitempo la morte della lettura e del libro, sono lì a dimostrare quanto sia viva e vitale la letteratura per l’infanzia. L’autrice ridisegna i profili di picari e principi, di antri e labirinti, di agnizioni e iniziazioni, come punti di connessione fra vecchi apparati fiabesco-letterari e nuovi scenari video-ludici, con una efficacia argomentativa impeccabile, il cui unico difetto è una ridondanza di blocchi di citazioni (se ne contano a volte tre per pagina!) che, dopo un po’, diventano fastidiose interruzioni a una lettura altrimenti scorrevole (eppure, fra tante citazioni, nemmeno una sul lavoro della Hertz…).
Labirinti elettronici è un libro che può anche apparire ambizioso e presuntuoso, con quel sottotitolo declaratorio: “letteratura per l’infanzia e videogame”. Come dire: trattare insieme due cose che il comune sentire culturale e pedagogico preferisce tenere separate, dando per scontato che ci si debba schierare dall’una parte o dall’altra, poiché il libro e il videogioco sarebbero inconciliabili nella loro radicale (apparente) diversità. Va da sé che un mercato di prodotti di bassa e persino infima qualità estetica e narrativa comprende sia libri che videogiochi, ma all’autrice interessa uscire dai luoghi comuni e dagli stereotipi della facile omologazione, perché solo riconoscendo i livelli alti di certi prodotti si possono prendere le distanze da quelli bassi. Ed è in alcuni raffinati “esercizi critici” in cui l’autrice trova rimandi e connessioni, che il libro dà il meglio di sé, come nelle pagine in cui si passa da Alice a Matrix a Ghost Hunter, fino al tema del genius loci, per dire della complessità di trame che si danno e si prendono passando da un libro a un film a un videogame.
Alla fine, al pedagogista non resta che una cosa da fare: chiudere il libro e andare a vedere nella realtà che cosa succede fra videogiochi e bambini. Se è vero, come è vero, che la lettura e il gioco sono due esperienze attive per il soggetto, allora che cosa fanno i bambini che “leggono” e giocano i videogame, e li condividono? Che educazione alla lettura e al gioco è mai quella che passa attraverso queste esperienze? Domande per una ricerca e per un altro libro.
(da LiBeR 76)