Jack Zipes
Mondadori, 2006, 382 p.
(Infanzie)
€ 13,00
Il libro si propone come un percorso critico volto alla costruzione di una storia sociale del genere fiaba, a partire dalla fiaba italiana delle origini (Straparola e Basile), passando per grandi e noti autori quali Perrault, i fratelli Grimm, Andersen, MacDonald, Wilde, Baum, senza trascurare la fiaba contemporanea affrontata con autori come Ungerer, Ende, Noslinger e Rodari. Un'esplorazione della fiaba alla luce del suo potenziale sovversivo ed emancipatorio.
Jack Zipes è direttore del Center for German and European Studies presso l'Università del Minnesota (USA).
La recensione di Stefano Calabrese
Originariamente pubblicato nel 1983 e in seguito accresciuto di alcuni densi contributi, il libro di Jack Zipes appare in traduzione italiana in un momento assai favorevole allo studioso americano, che sembra trovare nel nostro Paese una tardiva, trionfalistica accoglienza: ricordiamo Oltre il giardino. L’inquietante successo della letteratura per l’infanzia da Pinocchio a Harry Potter (Mondadori, 2002) e Spezzare l’incantesimo. Teorie radicali su fiabe e racconti (Mondadori, 2004). Questo ritardo è un vero peccato, perché si sarebbe dovuto leggere Zipes in tempo reale, nel suo momento di maggiore prolificità tra gli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo, quando le domande che egli rivolgeva alla fiabistica moderna e contemporanea avevano il preciso scopo di modernizzare il settore degli studi sulla fiaba, diviso tra le secche della Morfologia di Propp – asservita dagli strutturalisti al progetto di scoprire la Grammatica Universale della narrazione – gli interessi micro-eruditi dei folcloristi e il variopinto partito dei filo-junghiani, pronti a leggere nelle fiabe ogni possibile significato, a pieno arbitrio dell’interprete e senza preoccuparsi di consegnare ai lettori un apparato probatorio. I guasti arrecati da Bruno Bettelheim a una corretta analisi delle fiabe restano un clamoroso ammonimento.
Zipes ha mostrato sin dall’inizio un passo diverso. Da cólto germanista con una vocazione alla comparatistica – tra i cui meriti c’è anche l’esportazione di Gianni Rodari nei paesi anglofoni – egli si è posto l’obiettivo di svelare le manipolazioni socio-politiche cui, a partire dal XVI secolo, sono state sottoposte le fiabe popolari, riscritte per educare i bambini e ottenerne un migliore controllo sociale; testimoniare come a partire dai Grimm il fiabesco abbia progressivamente censurato elementi tematici ricollegabili a una sessualità disinibita e a una aperta contestazione delle classi sociali preordinate alla gestione del potere politico; seguire l’evolversi di singole fiabe (è il caso del raffinato volume sulle riscritture di Cappuccetto Rosso, pubblicato da Zipes nel 1993: The Trias and Tribulations of Little Red Riding Hood) per dimostrare la loro congruenza con l’affermarsi in Occidente della razionalità strumentale. Dietro l’immaginosità del fiabesco, e proprio in virtù del suo apparente disimpegno dalla realtà storica, si celerebbe sempre e comunque il dovere di censurare, produrre, educare alla sottomissione. Questa convinzione, dai contorni vagamente paranoici, sarebbe stata ancora sopportabile se negli ultimi anni Zipes non fosse diventato un interprete ortodosso e implacabile dell’ala peggiore dei gender studies, secondo la quale l’intera storia della cultura, e a fortiori della fiaba occidentale scritta, dimostrerebbe solo e soltanto come la sessualità maschile sia stata prevaricatrice in ogni forma, a cominciare dalla scarsa presenza di personaggi femminili in letteratura o dal tipo di azione che essi sono stati costretti a subire.
Chi ha paura dei fratelli Grimm? è pervaso da questo increscioso equivoco. A titolo di esempio: circa la genesi della fiaba scritta in Italia, l’autore nota come Basile contrasti il programma di controllo sociale dei comportamenti e della sessualità attivo in ambiente cortigiano, come dimostra il fatto che le narratrici del Cunto de li Cunti siano donne; parimenti, Madame d’Aulnoy e Mademoiselle de Murat “avrebbero messo in discussione i valori, i costumi, le abitudini e l’uso del potere della loro epoca”, poiché attraverso i personaggi femminili delle loro fiabe “parlano evidentemente a nome delle donne umiliate con voce dimessa ma decisa”; i Grimm avrebbero addirittura bonificato l’immaginario popolare, trasformando ogni personaggio femminile in una “eroina che impara a essere passiva, obbediente, pronta al sacrificio, capace di lavorare sodo, paziente e onesta”; i testi di Andersen, cela va sans dire, incarnerebbero “i sogni di ascesa e felicità individuale che promuovono un potente e totalizzante processo di selezione borghese che favorisce la dominazione della mente e della fantasia”.
E quando infine l’autore allestisce una rassegna della fiabistica del secondo Novecento, ecco la brillante conclusione cui perviene: “Il comportamento attivo e aggressivo dei protagonisti maschili nelle fiabe classiche lascia il posto a un attivismo congiunto da parte sia di personaggi maschili che femminili”.
Come si vede, Zipes è oggi a un passo – a un solo passo – dal proporre l’introduzione delle quote rosa nel sistema dei personaggi fiabeschi, almeno se si giudica dalle lamentele esposte in Oltre il giardino contro la Rowling, rea di avere consegnato un low profile a Hermione, regalando la scena al maschio (?) Harry Potter. È difficile non ironizzare su queste letture soffocanti, innamorate di un concetto di sovversione regressivo e politicamente datato almeno quanto gli alberi di cuccagna della tradizione popolare: letture che hanno, tra gli altri, l’indubbio difetto di snaturare l’unicità della fiaba nel sistema dei generi letterari stabilizzatosi in epoca moderna: quella di custodire relitti culturali di epoca arcaica e di raccontarci l’oscuro passato dell’homo sapiens, le sue ataviche paure, la sua efferatezza, i sogni, la percezione dello spazio e del tempo. È precisamente questa capacità di custodire relitti e raccontare le origini dell’uomo che ha reso, e a lungo renderà, le fiabe imprescindibili per intere generazioni. Se dunque sottomettessimo il frontespizio del libro di Zipes a una di quelle manipolazioni sostitutive che piacevano a Rodari e facessimo viaggiare le parole creando inediti connubi, in modo che la domanda del titolo suonasse come “Il lettore di fiabe ha paura di Jack Zipes?”, la risposta sarebbe un assertivo, certificabile, preoccupato “sì”.
(da LiBeR 74)