Lia Levi ha scritto per i ragazzi opere fondamentali per la conoscenza e la memoria della Shoah e della Resistenza, da Una valle piena di stelle a La ragazza della foto e a Che cos’è l’antisemitismo? Poi si è proposta di raccontare anche ai più piccoli l’indicibilmente mostruoso, le leggi razziali, la persecuzione, lo sterminio degli ebrei, ma anche la resistenza civile. Dopo La portinaia Apollonia, è la volta di un racconto molto didascalico che si sviluppa attraverso una narrazione prima distesa e poi sempre più tesa, fino allo scioglimento finale, naturalmente lieto per rendere accettabile ai giovanissimi lettori una vicenda altrimenti intollerabile. Leone Ascoli, otto anni, romano, ebreo, si fa chiamare semplicemente Leo perché non vuole essere preso in giro dai compagni che gridano “Leone!” e poi fanno il ruggito. In quella “strana” estate del 1943 succedono cose appunto molto strane, incomprensibili. In seguito alle leggi razziali del 1938, gli ebrei come gli Ascoli non possono avere una radio né una domestica “ariana” come la vecchia e affezionata tata, Leo e sua sorella non possono frequentare la scuola pubblica, papà non può lavorare se non di nascosto. “Peccato che avete ucciso Gesù, lo ha detto il parroco” – dice bonariamente a Leo un’amichetta; ma papà gli spiega che “Gesù era ebreo e lo hanno ucciso i Romani”. Le altre persone sono generalmente gentili e generose, come la portinaia; qualcuno è un fascista fanatico che odia i giudei. Intanto la guerra arriva anche a Roma con i bombardamenti, le corse nei rifugi, le code davanti ai negozi, le tessere alimentari, la borsanera, il Papa che si reca nel quartiere distrutto di San Lorenzo, la caduta di Mussolini il 25 luglio, la richiesta agli ebrei romani di 50 chili d’oro per una illusoria speranza di salvezza, la grande retata nel ghetto il 16 ottobre, tutto visto con gli occhi di un bambino. Proprio quella notte Leo vede i tedeschi che caricano gli ebrei sui camion e dà l’allarme consentendo alla famiglia di fuggire avventurosamente sui tetti. Durante la fuga trova il coraggio di vincere le vertigini, che ha sempre nascosto come una colpa vergognosa, e di saltare giù da un terrazzo: “Mi chiamo Leone! – lo gridò e via. Si era buttato”. Viene in mente il Leone Codardo del Mago di Oz, che in realtà il coraggio lo aveva già dentro di sé. Lia Levi mostra che si può narrare una tragedia con la leggerezza di un soffio.
F. Rotondo (da LiBeR 71)