Arte, scienza e speranza in tempi di crisi ecologica e sociale: Hannah Arnesen racconta a Marnie Campagnaro la nascita e la crescita del suo libro Stardust: polvere di stelle, pubblicato da Orecchio acerbo e vincitore del Premio come miglior libro 2024 secondo la giuria degli esperti di LiBeR
Stardust è un libro bellissimo, ma al contempo respingente. 352 pagine, quasi una al giorno per un anno. Potrebbero essere impegnative da affrontare, specialmente se non si ha la passione per la lettura, la poesia e la scienza. Ma Stardust stupisce proprio per questo. Perché attraverso le immagini tiene insieme tutta la tela. Una tessitura visiva che parla del mondo, del nostro mondo. Di quello che era, di quello che è, di quello che sarà. E parla anche di noi, esseri umani, una specie ben difficile da comprendere, nei suoi comportamenti, nelle sue abitudini, nei suoi valori. Per questo Stardust: polvere di stelle è un libro più unico che raro. È un libro-mondo. Perché certamente parla di terra, natura, cambiamento climatico, inquinamento, effetto serra, Antropocene e di distruzione, ma parla anche di sguardi d'infanzia, di memoria bambina, della straordinarietà della vita quotidiana, di bellezza, tanta bellezza. Racconta il mondo in cui viviamo con meraviglia, con stupore, con amore. Oltre che con precisione scientifica. Abbiamo rivolto alla sua autrice, Hannah Arnesen, alcune domande.
Tenere tutto questo assieme non deve essere stato facile. Da dove vuole partire, Hannah Arnesen, nel raccontare questo libro-mondo?
Stardust è nato da due punti di partenza. Ho sempre sognato di tracciare nuove strade per l’albo illustrato. Penso che sia troppo limitato da regole rigide, da fasce d'età, temi e strutture narrative. Il mio desidero è di creare albi illustrati per tutte le età perché li percepisco come un fantastico luogo di incontro tra generazioni, un'esperienza artistica che possiamo condividere e che può innescare conversazioni. Eppure, il tema di Stardust era l'ultima cosa sulla quale avrei immaginato di scrivere un libro. Tutto è iniziato quando con il mio compagno, che studiava sostenibilità, tornava a casa parlando della crisi climatica. Ho capito che non volevo ascoltare, era troppo deprimente, non riuscivo ad accettarlo. Mi sono sorpresa a cambiare l’argomento. È stato allora che ho preso una decisione: non volevo essere quel tipo di persona, volevo prendermene cura. Volevo fare un libro sulla crisi climatica per tutti noi che non vogliamo ascoltare
Lo sguardo sul mondo è, insieme, scienza e poesia. In Stardust, questi due registri narrativi convivono: da un lato, infografiche, linee del tempo e tabelle restituiscono la precisione del dato scientifico; dall’altro, le illustrazioni e la narrazione poetica evocano emozioni e suggestioni. Nel suo processo creativo, questi due modi di raccontare il mondo seguono percorsi di pensiero diversi? Il suo approccio cambia quando lavora su un dato scientifico rispetto a quando costruisce una narrazione più immaginifica?
Per me, Stardust è stata un'esplorazione di come integrare scienza e storia e, attraverso il potere della narrazione, trasformarle in qualcosa che non solo sono in grado di comprendere intellettualmente, ma che posso anche sentire emotivamente. Penso che abbiamo delegato troppe responsabilità agli scienziati. Come se la crisi climatica fosse solo un problema tecnico da risolvere, un grafico da piegare. Per me è molto di più. È la questione esistenziale del nostro tempo. E sentivo la mancanza di quella conversazione. Nella società in cui sono cresciuta, i fatti misurabili sono considerati di grande valore, ma non credo che la minaccia alla democrazia derivi dalla mancanza di fatti. Credo, piuttosto, che nasca da una mancanza di empatia, giudizio e capacità di relazione. E sono convinta che l'arte abbia un ruolo importante da giocare in tutto questo.
Nel libro si percepisce una fluidità di passaggio tra esseri umani, animali e vegetali, quasi una dimensione liquida in cui le specie convivono in un rapporto di interdipendenza, trasformazione e scambio. La tecnica illustrativa ha cercato, in qualche modo, di essere essa stessa coerente con questa visione? Vi è stata una riflessione sulla possibilità di restituire, attraverso le immagini, l’idea di un flusso vitale condiviso, simile a un brodo primordiale che ci contiene tutti?
È entusiasmante leggere la tua interpretazione, e mi piace. Lavoro spesso con acquerelli e acrilici, e questo non è qualcosa di esclusivo per questo progetto. I miei pensieri sulle immagini erano che volevo essere abbastanza figurativa da coinvolgere l'immaginazione del lettore, ma al tempo stesso lasciare uno spazio astratto sufficiente da non limitarla. Per me è importante che l'immagine non si limiti a illustrare il testo, ma abbia lo stesso valore nella narrazione. Insieme, testo e immagine creano l'esperienza. Uso spesso il testo come trampolino per far sì che il lettore “cada” dentro le immagini. Le immagini possono offrire un silenzio, un vuoto, dove il lettore può collocare i propri pensieri. Ho anche riflettuto molto su come usare la bellezza come filtro per rendere possibile l’assorbimento dell'oscurità. Volevo che il lettore fosse catturato dalle immagini. Ho dedicato molto tempo a ciascuna illustrazione, come una forma di resistenza alla società dell’efficienza in cui viviamo. Per quanto riguarda i soggetti, ho pensato a lungo a come viene spesso rappresentata la crisi climatica. Credo che siamo diventati immuni ai ghiacciai che si sciolgono e agli orsi polari tristi. Un problema che ho sentito sollevare dai ricercatori è che tendiamo a percepire la crisi climatica come qualcosa di distante, sia nel tempo che nello spazio. In Stardust, ho cercato di avvicinarla, riflettendo sulle immagini che emergono dalla mia vita quotidiana. Ho fotografato il mio guardaroba, i miei acquisti e i miei viaggi in aereo. Ho riflettuto su cosa significhi la crisi climatica per me, e ciò che è emerso è stata una sensazione di folla umana e di consumo.
Nel corso della sua ricerca ha parlato con tanti giovani, raccogliendo emozioni, paure, speranze. Ora che Stardust è nelle loro mani, che tipo di dialogo si è creato con loro? Ci sono parti del libro che inizialmente non aveva immaginato come centrali, ma che invece attraggono maggiormente ragazze e ragazzi?
Quando ho creato Stardust, avevo la sensazione che alle persone non importasse davvero della crisi climatica. Forse sono stata influenzata dalla politica mondiale e dai media. Volevo raccontare la crisi climatica e trovare un modo per spingere le persone ad accoglierla. Ma oggi, dopo aver portato il libro in giro, mi rendo conto che mi sbagliavo. Il problema non è che alle persone non importa; ovunque, vada, nelle grandi città o nei piccoli villaggi, con bambini con bambini piccoli o persone anziane – a tutti importa. Il vero problema è che si sentono impotenti.
Ho incontrato undicenni che non credono di avere un futuro, donne anziane che non vogliono avere nipoti e scienziati che hanno perso la speranza. Sento un forte desiderio di connessione tra le persone su questo tema. C’è bisogno di parlare della paura per il futuro e del dolore per ciò che stiamo perdendo. Sta crescendo una generazione con un’ansia climatica che non esisteva quando io ero un’adolescente. Rifletto spesso su me stessa, come narratrice, mi dovrei rapportare a tutto ciò. Oggi, sono ancora più interessata alla speranza. Cos’è la speranza? E come possiamo trovarla in tempi come questi? Credo che le storie ci plasmino, sia come individui che come società. E sono curiosa di capire che tipo di storia abbiamo bisogno di raccontare oggi.