N.G. L’estate balena è un romanzo in qualche modo coraggioso. Mi pare che sovverta in stile, tempo, ritmi, scrittura, un canone che sembra essere condiviso nella letteratura attuale per l’infanzia del nostro paese, che prevede spesso un certo umorismo ammiccante, un ritmo incalzante e avvenimenti inaspettati. Qui l’incedere è approntato alla lentezza, gli eventi sono quotidiani e c’è spazio per una riflessione che appartiene ai personaggi e non al narratore. Quanta intenzionalità d’autore c’è in questo?
N. C. Non conosco in maniera approfondita l’attuale produzione di libri per l’infanzia, per cui non posso attribuirmi un’intenzione divergente: quando scrivo un romanzo, non sono mosso dal desiderio di smarcarmi, di cercare strade alternative rispetto a quelle battute; piuttosto, seguo la mia strada, cercando di raccontare le cose che conosco bene e che in qualche misura mi appartengono; e privilegiando sempre – perché questa è la mia cifra di scrittore – la dimensione dell’interiorità e l’attenzione alla forma. Ne emergono in genere storie lente, soprattutto quando mi muovo sul piano realistico, come nel caso dell’Estate balena, dove accadono pochi fatti e l’azione cede il passo alla contemplazione. Sentirle dire che il romanzo ti sembra in qualche modo coraggioso mi fa molto piacere, ma il coraggio, in verità, più che a me va attribuito all’editore che ha scelto di pubblicarlo.
N.G. Mi sembra che il romanzo si inserisca, in qualche modo, in un andare che fa riferimento alla tradizione letteraria italiana. Leggendolo non si può non pensare all’Agostino di Moravia, a L’isola di Arturo della Morante e anche all’Ernesto di Saba. Il ritmo narrativo, un certo rifuggire a effetti dirompenti, un lessico che non rinuncia alla complessità, il porgere leggero di descrizioni minute mi sembra che avvicini il tuo romanzo a quella che è una tradizione consolidata, ma non presente nella nostra letteratura per l’infanzia. Pensa che il suo scrivere abbia debiti e legami con i modi, gli stilemi e l’andare dei classici della letteratura del nostro paese?
N.C. Come lettore, io ho sempre amato i narratori italiani, attratto dalle storie e soprattutto dalla scrittura, dalla capacità di restituire, con l’uso sapiente della parola, la verità dei sentimenti. I nomi dei miei autori sono quelli di Berto, Buzzati, Calvino, Campanile (un umorista lieve e surreale, certo, ma capace anche di inventarsi un romanzo poetico come Benigno), e potrei continuare in ordine alfabetico fino a Parise, Pavese e Tobino. Se invece dovessi indicare il titolo di un libro che sento risuonare nelle pagine dell’Estate balena, citerei Tempi memorabili di Cassola, un romanzo di cose minime e nello stesso tempo eterne. Sempre parlando di debiti e legami del mio romanzo, vorrei aggiungere anche tre titoli di romanzi italiani per ragazzi che mi sono altrettanto cari: Tea Patata di Donatella Ziliotto, Re Mida ha orecchie d’asino, il più filosofico dei romanzi di Bianca Pitzorno, e L’estate gigante di Beatrice Masini, un libro che ho voluto omaggiare anche nel titolo.
N.G. Tutti sanno che lei è insegnante e che ha una formazione filosofica e pedagogica. La storia che ha scelto di raccontare, le caratteristiche di Carlo, bambino riflessivo, ubbidiente, curioso del mondo, ascoltatore, privo di quella spinta vitalistica e un po’ sbruffona che appartiene a tanti personaggi della nostra letteratura, non compreso pienamente dagli adulti che lo circondano (ma solo perché non ci può essere piena comprensione fra il mondo dei grandi e quello dei piccoli), un po’ alieno da un’immagine d’infanzia che preferisce i transformers ai beluga e che fatica a realizzare la dimensione di tristezza che appartiene all’infanzia stessa, porta il lettore bambino a contatto con una dimensione altra, alternativa rispetto a quell’immagine di infanzia sorridente, chiassosa, prepotente che, forse , risponde solo alle aspettative degli adulti. Quello che lei racconta, a grandi e piccoli, è una visione d’infanzia stratificata e complessa, che trova spazio sia nelle sue produzioni per piccoli sia nelle bellissime composizioni, che per piccoli non sono, de Le poesie di via Bisenzio. Dove ha le radici questa visione?
N.C. Da bambino sentivo di essere molto diverso dai bambini che vedevo muoversi nei film, nei telefilm, nelle pubblicità e negli altri scenari dove erano rappresentati. Solo nei libri, in qualche felice occasione, mi poteva capitare di imbattermi in qualcuno che mi corrispondesse. Sentivo anche, per fortuna, che il problema non ero io: quei bambini immaginari, già allora sorridenti, chiassosi e disinvolti, avevano poco a che fare anche con i miei amici e compagni di scuola – i bambini reali con cui trascorrevo le giornate. Chissà. Forse questo scarto deriva dal fatto che le rappresentazioni e le narrazioni, anche quando non sono mosse da qualche interesse prettamente adulto (economico o ideologico), tendono sempre a evidenziare l’eccezionale e lo straordinario, lasciando nell’ombra quello che invece è comune e ordinario. Dal mio punto di vista di scrittore, però, non c’è bambino la cui esperienza non meriti di essere raccontata. Come scrittore, non trovo interesse nei bambini prodigio. Quello che cerco, piuttosto, è la dimensione prodigiosa della normalità. Può sembrare strano, ma in fondo, già da bambino, a Pippi Calzelunghe preferivo Tommy e Annika.
N.G. Carlo, il personaggio principale, sembra cercare il senso del mondo, della vita, degli eventi quotidiani, nelle parole, nell’uso, nell’etimologia e nel senso individuale che gli eventi rendono alle parole stesse. Carlo fa riferimento ai termini parole-perle e parole-stelle che appartengono alla sua maestra, maestra che afferma che le collane più belle di parole sono quelle dei poeti. Quanto il suo essere poeta influisce sul costruirsi delle storie che racconti? E quanto le parole finiscono per definire la narrazione?
N.C. Le parole, per un bambino, sono la via regia di accesso alla realtà. Carlo, come tutti i bambini, lo intuisce e cerca di raccogliere le parole rare e sconosciute e di fissarle bene, come un collezionista scrupoloso. Ma le parole sono anche un formidabile strumento di gioco. Sempre a portata di mano e inesauribile. Nei momenti di vuoto o di attesa, quando incombe la noia, Carlo gioca con le parole, le combina e le scombina, cercando e trovando legami e significati. Può capitare, poi, inaspettatamente, che poche parole messe insieme facciano vibrare qualche corda nascosta nell’anima. Il gioco, allora, si apre alla poesia. E si spalanca un altro universo di possibilità di espressione. Nell’Estate balena c’è questo silenzioso percorso dalla parola al gioco alla poesia. Quanto a me, mi sento sempre più a mio agio nella poesia che nella prosa, e nei libri di narrativa entro sempre con uno sguardo poetico, che si traduce in una scrittura attenta ai suoni, ai ritmi e alle risonanze delle parole. Anche perché, detto prosaicamente, non essendo particolarmente abile nella costruzione delle trame, cerco di recuperare punti con quello che meglio so fare.