Silvia Vecchini e Antonio Sualzo sono i vincitori del Premio LiBeR 2021 per Le parole possono tutto (Il Castoro). Agata Diakoviez è entrata nella loro officina per farsi raccontare come nasce e si sviluppa il loro lavoro.
Come organizzate le vostre idee professionali per tradurle in libri?
Sualzo: Non è mai chiarissimo, la cosa è molto empirica, non è teorica. Non abbiamo una teoria da applicare. Ma una specie di prassi che ormai si è consolidata.
Silvia Vecchini: Quello che fa i fumetti è Antonio, quello che li conosce, che li ha sempre letti da bambino, da ragazzo. Dopo, naturalmente, quando ci siamo incontrati, avevo 17 anni, le letture si sono sempre di più mescolate. Quella forma di scrittura e di pensiero che c’è dentro il fumetto è qualcosa che gli appartiene da sempre, quando l’ho conosciuto lui scriveva, e bene, anche versi.
La poesia la sente, e questo è un tratto per noi molto importante per scrivere insieme.
Le cose che io lascio non dette, o che quando le scrivo lasciano degli spazi che si aprono per il lettore, che vanno in profondità, che però non voglio del tutto sciogliere, lui le riconosce e le rispetta. E, se mai la sua operazione è quella di ampliare ancora di più quegli spazi, ad esempio utilizzando le tavole senza testo, le tavole mute. Significa che alcune delle mie parole sono cancellate per espandere questi momenti. La cosa che ci aiuta molto è un sentire comune in cui ci ritroviamo anche con due mezzi espressi differenti.
Sualzo: Che abbiamo scoperto che sono molto simili. Il fumetto e la poesia agiscono tutti e due sulle stesse chiavi, della sintesi necessaria, molto più forte che nella prosa. Sia il fumetto che la poesia hanno bisogno di una selezione molto forte per espandere un senso, per avere un’amplificazione. Con altri mezzi pratici perseguono lo stesso scopo: la grande espansione di senso, con un limitato utilizzo di espressioni.
Silvia Vecchini: Nella pratica accade che io scrivo una storia più o meno come la scriverei se fosse un romanzo, come se fosse la prima stesura affinché lui la legga, e passi dentro quella storia vedendo le cose che ho visto io. Da lì poi possiamo fare un trattamento che non ha niente a che fare con la sceneggiatura tecnica di un fumetto, perché altrimenti vorrebbe dire che lui è un esecutore di una tavola.
Sualzo: Vorrebbe dire per me fare una cosa che mi annoia, eseguire e mettere sicuramente qualcosa di mio, ma non nella maniera in cui mi diverto. La sceneggiatura classica prevede che lo scrittore scriva un tipo di inquadratura, quante vignette ci sono…
Silvia Vecchini: Quando facciamo un graphic novel insieme sappiamo che tutti e due dobbiamo portare un peso che è identico. Per fare questo a me serve che lui veda tutta la storia come l’ho vista e sentita io, che senta per primo i dialoghi, che legga i pensieri dei personaggi, veda le ambientazioni. Ridendo abbiamo sempre detto che io scrivo e lui cancella.
Sualzo: Poi, magari, quelle parole dentro la storia si moltiplicano, però non è dato di leggerle. Diventano immagini, recitazione. Nel tempo avevamo teorizzato che è un po’ come se fosse il lavoro di un autore e un regista teatrale. Nel teatro succede spesso questa cosa: c’è un testo che viene dato in mano a un regista, che in qualche maniera si separa dall’autore del testo e vede quello che deve fare su quel palcoscenico.
George Steiner scrive nel sul saggio Vere presenze che i più grandi ermeneuti dei testi letterari sono i registi teatrali, gli attori…
Silvia Vecchini: Certo, perché il testo quando va in scena lo traduci con un’altra lingua, che qui è quella del fumetto. Fai vedere le parole. Per me, che sono dalla parte di una che scrive, è molto interessante e mi piace molto. Per non pestarci i piedi, perché è importante che come io ho avuto la libertà di scrivere quello che volevo senza nessuno che in quel momento interferisse, la stessa cosa avvenga per chi disegna. Ci siamo dati questo modo, che abbiamo visto che funziona: prima Antonio lavora uno storyboard, e quindi la storia si deposita in un trattamento che è quello di un fumetto anche se a matita, anche se molto veloce.
Sualzo: Realizzo una realtà visiva.
Silvia Vecchini: Quando avviene questo passaggio, il libro che ho scritto prima non esiste più.
Sualzo: Si riparte da lì, e lei inizia un nuovo processo di scrittura.
Silvia Vecchini: Non rileggo più quello che avevo scritto, non devo averne nessuna nostalgia perché il libro diventa lo storyboard che ha tradotto lui. Si lavora su un soggetto che è nuovo.
Non siamo mai tornati indietro a quello che era stato scritto. Il mio mettere mano ai suoi disegni può voler dire di rallentare se c’è una scena che è troppo rapida, mentre io vorrei che l’attenzione del lettore si soffermasse di più, oppure rivedere un passaggio che potrebbe essere frainteso.
Sualzo: A quel punto lei diventa lettrice, avendo sotto mano una cosa di cui conosce una parte, e quindi se c’è qualcosa che non capisce o c’è qualcosa che non è coerente, lo vede subito. Lei poi mentre scrive disegna, a volte in questo testo che ho vicino ci sono dei disegni. Per esempio l’idea del golem era stata disegnata da lei.
In tutti le vostre graphic novel c’è sempre il coraggio di affrontare questioni che sono spesso evitate nella letteratura per ragazzi. I fumetti, i graphic novel hanno quasi sempre la forza di parlare di argomenti, storie, che entrano nella letteratura con molto più ritardo.
Sualzo: È un po’ una zona franca, lo sa anche l’autore che li realizza.
Silvia Vecchini: Sulla narrazione c’è un controllo abbastanza pressante.
Sualzo: Anche troppo. I fumetti sono giudicati un registro minore. C’era un mio amico che faceva negli anni ’80 le vignette su Paese Sera, mi raccontava che arrivava in redazione un giornalista che sottovoce gli chiedeva: “fai una vignetta su questo”, e lui gli rispondeva: “ma scrivici un articolo”, e quello di rimando: “Non posso”. La vignetta passa, perché tu sei il giullare e ti è permesso tutto. Può dire delle verità ridendo. Ora forse un po’ meno.
Silvia Vecchini: Io ho sempre sentito un’attrazione verso l’idea di raccontare la vita nella sua complessità, senza buttare via niente. I bambini e i ragazzi, affrontano tutti i giorni la loro vita, e questa può essere anche complessa. Non è che la loro età li salva dall’attraversamento di certe cose. Quando li incontro vedo che c’è un mondo e un’umanità interessantissima ma anche molto sofferente. Non capisco perché una storia non debba toccare la vita nella sua complessità.
Sualzo: La sfida di un autore per ragazzi non è quella di trovare temi adatti, ma trovare modalità adatte. Non ci sono temi per ragazzi e altri per adulti. Noi cerchiamo di non essere nichilisti, catastrofisti, ma nemmeno consolatori.
Silvia Vecchini: Quando racconto una storia lo faccio perché sento di poter raccontare la realtà, non ho l’intenzione di fare operazioni morbose.
C’è nel vostro lavoro un’attenta delicatezza nel porgere le emozioni, le situazioni che creano squilibrio. Il respiro finale non è mai nascosto ma viene affrontato con naturalezza, anche ne Le parole possono tutto, accade perché è parte della vita.
Silvia Vecchini: Per me è così proprio perché è dentro la vita, e davvero i bambini l’attraversano, e anche i ragazzi. Solo se vogliamo girarci da un’altra parte possiamo evitarla, ma per loro sono temi importanti. Quando li incontriamo, o quando facciamo gli incontri on line, le cose che domandano sono queste. Le domande dove arrivano più dritti, con la speranza che qualcuno risponda, e voglia intrattenersi con loro su quell’argomento.
Sualzo: La morte quando viene rappresentata è sempre quella dell’eroe, la morte quotidiana non esiste.
Silvia Vecchini: Nel nostro lavoro la riflessione è stata sollecitata dalla nostra editrice, Renata Gorgani, che dopo il terremoto, ci chiese di trovare il modo per raccontare anche questo ai ragazzi. Ad Amatrice erano morte tante persone e ogni giorno c’erano immagini terribili in televisione. Noi all’inizio non ci riuscivamo, poi sono passati dei mesi, c’è stata la scossa che ha colpito Norcia, e praticamente in un giorno è cambiato tutto. Nel nostro paesino che ha 800 abitanti sono arrivati 250 sfollati con i pullman. La mia famiglia ha accolto un’eremita urbano, c’erano bambini e ragazzi che andavano a scuola con i nostri figli.
Sualzo: A quel punto non era più una cosa che veniva dal telegiornale
Silvia Vecchini: Eravamo stati sollecitati a trattare di un tema che per noi era molto scivoloso, difficile, perché dovevamo parlare del terremoto dopo tutte quelle vittime.
Sualzo: Però anche lì si è agito come sempre: c’è una storia? La troviamo? E, allora puoi anche parlare del terremoto, ma se partiamo da un tema non viene fuori niente.
Silvia Vecchini: Antonio ha avuto quest’idea di realizzare la storia in un luogo che non è nominato, ma tutte le immagini che ci sono delle macerie vengono da tutti i posti colpiti dal terremoto, come se fosse un unico paese. Cioè l’idea che quando c’è il terremoto ci si trova tutti insieme, si ritrovano anche lì le generazioni, le famiglie che non sono perfette. Il terremoto ti prende così come sei.
Sualzo: La zona rossa non è un libro sul terremoto, ma sui terremoti, anche della vita.
Silvia Vecchini: Quella era per noi la prima volta che trattavamo un tema molto forte, con un fumetto, quindi dove i bambini e i ragazzi avrebbero visto. Non siamo andati alla ricerca di cose macabre o scioccanti. Però è un libro pieno di macerie.
Sualzo: Ci ha colpito una recensione uscita sul Financial Times, negli Stati Uniti, quando il libro è stato pubblicato da un editore statunitense. Diceva che eravamo riusciti a raccontare in maniera coinvolgente e profonda il dramma del terremoto senza mostrare scene apocalittiche. Per loro è quasi impossibile non mostrare devastazioni.
Silvia Vecchini: Eppure nel libro la morte c’è, anche se l’abbiamo caricata tutta su un totem.
Sualzo: In un personaggio che non c’è, che entra in scena da assente. È lì in copertina, ma resta un fantasma. Ha colpito perché è su quello che fanno le loro domande tutti i bambini.
Silvia Vecchini: Noi non volevamo esibire niente, ma nemmeno far finta che quella cosa non c’era. Raccontare di un terremoto senza passare nemmeno vicino alla morte era una bugia. Ma sappiamo anche che i fumetti funzionano in un modo strano: noi li pensiamo per lettori più alti ma vanno sempre tra le mani dei bambini più piccoli, allora cerchiamo di tenere insieme le due cose.
Torniamo a Le parole possono tutto, dove si realizza totalmente questa vostra idea di complessità con una ricerca linguistica e stilistica che permette ai lettori di sentire la storia e prendervi parte. Perfetta l’idea, e poi la composizione dell’alfabeto ebraico che diventa insieme parola e figura, nascondimento e svelamento del sé. Com’è nata l’idea di usare questa lingua come mezzo?
Silvia Vecchini: L’idea di questa storia parte da lontano. Avevo il desiderio di scrivere mettendo una briciolina delle mie letture, della mia passione per la cultura ebraica che ho iniziato ad avere alla fine del liceo, quando ho iniziato a studiare l’ebraico antico, l’ebraico biblico. Mi sono cercata dei maestri, all’Università di Perugia c’era un corso di ebraico, ho studiato con Bruno Pennacchini che era il direttore della Biblioteca della Porziuncola di Assisi. È stato uno studio che mi ha appassionato tantissimo ed è rimasto come qualcosa di profondo che ha a che fare per me con la forza delle parole
Sualzo: La sua idea di scrittura viene da lì.
Silvia Vecchini: Gli anni del liceo erano quelli in cui io ho iniziato a scrivere, e questa lingua, in cui ogni cosa ha un importanza enorme, può essere interpretata, e non si finisce mai di leggere e di capire, c’è sempre un rimando, anche questo solo soffermandosi sull’alfabeto, dove ogni lettera può essere indagata dal punto di vista del suono, del significato, del nome che richiama un’altra cosa, della sua posizione dentro la parola, oppure del suo valore numerico. Insomma per me era molto affascinante.
Sualzo: E io ho colto e seguito la sua passione. Ogni lettera è un contenitore di storie che sono formate da lettere e quindi era una specie di microscopio infinito di scomposizione in scomposizione, e a un certo punto si ritrova la persona, l’umano dentro. L’idea della parola ebraica è che la parola fa, che è generativa.
Silvia Vecchini: Dal niente la parola crea, ma è una parola che sta prima ancora del niente. Da dove vengono queste parole? Che poi è la domanda che c’è nella poesia: da dove arrivano le parole?
A noi piace molto giocare anche con la composizione del libro, di sfruttare dentro il libro le possibilità fisiche per comunicare, un po’ come abbiamo fatto con il romanzo Prima che sia notte (Bompiani). Non è tanto un artificio. Magari altri non lo noteranno ma ci sarà il lettore che qui si soffermerà, oppure questa può essere un’altra chiave. Antonio ha fatto questi ingressi di capitolo, ne provavamo uno per volta, senza la pretesa che dovesse tornare tutto. Solo alla fine abbiamo capito.
Sualzo: Il corpo della ragazza che ad un certo punto diventa le diverse lettere. Era un cerchio che si chiudeva, e non so nemmeno com’è nato. Forse all’inizio in una lettera ci ho visto un corpo, e ho detto chissà, forse anche nelle altre. E abbiamo continuato ad andare avanti, e le proponevo a Silvia e le chiedevo: secondo te si capisce?
Silvia Vecchini: Funzionava perché per me l’idea era quella che la protagonista ritornasse alle parole come se dovesse imparare da capo ad avere fiducia nelle parole, imparare l’alfabeto.
Sualzo: Confrontarsi con l’alfabeto
L’adolescenza è un po’ l’età del silenzio, del non sapere come dirsi, e invece c’è quest’alfabeto che è pieno di significati, com’è l’adolescenza, che aiuta a capirsi prima ancora di capire.
Silvia Vecchini: Si è come in potenza. La grande forza che sentivo dentro questa lingua, dentro l’alfabeto ebraico, ogni volta che mi accostavo, anche quando traducevo un pezzettino. L’idea che ogni lettera, ogni parola in potenza potesse sviluppare tantissimo a livello immaginativo.
Nell’adolescenza succede proprio questa cosa, che è come se la parola un po’ si ritirasse per fare poi un salto. A qualcuno questo salto riesce più o meno bene, però viene dalla trasparenza che c’è nell’infanzia, trasparenza di parole, di racconti, di esperienze.
Sualzo: Anche per incapacità dell’infanzia di non essere trasparente.
Silvia Vecchini: Di non filtrare, come se i pensieri del bambino fossero quelli dei genitori, si mescola tutto. L’adolescenza secondo me inizia quando questa capacità non c’è più. Vuol dire che c’è un filtro che diventa sempre più spesso, si divide, si sceglie quello da dire e quello da non dire. Si attraversa un momento che è un po’ la perdita delle parole. Non puoi più parlare come quando eri piccolo, non sai ancora bene quale sarà la tua voce da grande. Quale opinione hai? Di fronte a una cosa come pensi? Prima pensavi come la mamma, il papà, il fratello, quello che avevi sentito dire, come la maestra. Ma, adesso come pensi? È un tempo che interessantissimo.
Sualzo: Comunque c’è anche l’idea che in questo periodo non è che le parole non ci sono. Infatti, l’idea del golem che cresce è anche l’idea che queste parole da qualche parte le metti, da qualche parte vanno, e lì c’è una visualizzazione di questo serbatoio inespresso.
Silvia Vecchini: Nella storia è come se avessi tirato alla massima tensione possibile a cui potevo arrivare con il mio personaggio, dandogli una storia in cui è successo qualcosa che ha interrotto l’infanzia, magari in modo brusco. Qualcosa che è successo nella sua famiglia, qualcosa che succede a molti bambini che si attribuiscono la responsabilità. Quindi non è solo un momento di crescita. E anche per questo personaggio le parole si sono un po’ svuotate dai loro significati: che cosa è casa, cos’è la famiglia, chi sono io, come sono fatto. C’è un momento di crescita tra l’infanzia e l’adolescenza in cui non è solo che non credi più a Babbo Natale, ma ci sono delle cose che ti sono state dette e che non si sono avverate. Può succedere. Anche la custodia che possono avere i genitori su di te, piano piano capisci che arriva fino a un certo punto, e qualsiasi elemento di protezione o di rassicurazione si deve rimodulare. Quindi c’è una perdita di fiducia nelle parole che è anche propositiva, vuol dire che i ragazzi devono poi riconquistarsela, ricreare, appropriarsi delle proprie parole, della lingua del proprio mondo e anche delle proprie promesse. Il libro termina con lei che dà inizio a qualcosa di nuovo. Forse crescere è capire che devi dare tu un indirizzo, un orientamento. Le parole non sono fluide, anche con gli amici non è così facile confidarsi. Non hai ancora una tua identità chiara. L’ho visto tante volte con i ragazzi quando scrivono, e sono in quella fase. Lo vedi che non è che non hanno idee, non hanno le parole. Però, non è che è un momento in cui non succede niente, succedono tante cose, che poi è quello che diceva Sualzo, che è questa figura che abbiamo inserito, il primo elemento fantastico delle nostre storie.
Sualzo: È qui la prima volta che utilizziamo un elemento non realistico perché era necessario. Nella storia lo vede solo lei, nessuno lo vede, potrebbe essere un prodotto psichico.
Silvia Vecchini: L’adolescenza è un momento in cui succedono talmente tante cose, che poi devi trovare il modo di scioglierle, il modo di ridimensionarle, perché altrimenti ti possono spaventare, schiacciare. C’è un momento della storia alla fine in cui lei si sente un po’ in pericolo di fronte a questo personaggio che è stato custode, una specie di doppio, qualcuno che l’ascolta, che accoglie, che almeno fa quest’operazione importantissima di portare le parole da dentro di lei a fuori. Anche se fosse solamente un soliloquio ha però questa funzione, ma a un certo punto diventa un elemento di rischio. Come a voler dire: ecco, le parole non dette possono diventare pericolose se non si trova il modo di lasciarle, di farne qualcosa. La prima lettera di alfabeto che abbiamo messo, l’alef, ricorda proprio questa unione di due capacità che fanno l’uomo: quella di parlare e quella di fare.
Per lei queste due cose alla fine devono realizzarsi, infatti va dalla sua amica, ha un momento con suo padre, trova il modo di approcciarsi all’altro, a un primo amore, etc. Fa questo movimento, prende questa iniziativa, va incontro alla realtà.
Sualzo, puoi dirci quali sono i tuoi mostri sacri del fumetto, i tuoi maestri?
Sualzo: Il primo nome che faccio sempre, quello che mi ha fatto scattare inconsapevolmente, perché parlo di quando avevo cinque, sei anni è Grazia Nidasio, che reputo a oggi uno dei due, tre più grandi fumettisti italiani mai esistiti. Uso il maschile perché non vorrei metterla in una categoria dicendo le fumettiste, e invece no, e uno dei due, tre secondo me capiscuola assoluti. L’ho capito dopo, perché lì per lì ero solamente innamorato di quello che faceva, e poi crescendo quando ho cominciato a fare i fumetti ho capito che lei aveva questa facoltà che io inseguo tutt’ora, di raccontare delle storie che parlano di qualsiasi cosa della realtà anche minima rendendole divertenti, interessanti, coinvolgenti. Non aveva bisogno di eroi, di pirati, che vanno benissimo, però io ho sentito che quella cosa lì mi legava di più, come lettore, mi riconoscevo, c’era un immedesimazione istantanea, e una capacità di sintesi, perché la sua palestra erano ̶ io leggevo il Corriere dei Piccoli negli anni’70 ̶ le due pagine a settimana, tre qualche volta in cui ci stava una storia, una storia vera che parlava di pochissimo, perché era la realtà di una bambina di otto anni, la Stefi, che andava a scuola, incontrava gli amici e da lì magari scattava un ragionamento sulla vita, sul quotidiano e sull’esistenza, sugli adulti, con una grande ironia, però con una grande capacità.
E, da lì ho avuto il pallino da fumettista. Dico sempre che vorrei avere la capacità di fare un libro in cui quello che metto in pagina, come mi sembra sia e avvenga per Grazia Nidasio, è il necessario, anche su mille pagine, però che non ci sia una vignetta di più. La mia utopia è quella di fare un libro che se tolgo una lineetta non si capisce più niente, perché lì significa che la potenza del fumetto è al massimo. Poi, crescendo, mi sono innamorato degli autori francesi a partire dai classici come Frank Anderson, e poi di quelli dell’ultima generazione, che hanno poco più della mia età, ma erano già molto avanti, e quindi Christophe Blain, Trondheim, Larcenet, questa nouvelle vague che negli anni duemila era l’Association, questi gruppi di autori francesi che hanno preso il fumetto e l’hanno portato fuori dalla tradizione franco belga. E poi Vittorio Giardino e Magnus. Magnus non sono mai riuscito a conoscerlo, invece sono stato beneficiato della grande generosità di Giardino. Quando da assoluto sconosciuto gli ho chiesto se potevo mostrargli delle cose, lui mi ha detto: “Guarda, basta che prima mi telefoni, perché ho da fare, e puoi venire in studio”. Io, anche se stavo in un’altra città, gli ho telefonato, mi ha detto: “vieni”. Ho preso la macchina, sono andato a Bologna e lui mi ha accolto dicendomi: “ti posso dedicare mezz’ora perché poi devo lavorare”. Sono entrato lì la mattina e sono uscito che erano le otto di sera. Mi ha fatto vedere qualsiasi cosa.
È bello trovare e sentire la generosità nei maestri, non basta sedersi sulle spalle dei giganti, bisogna starci comodi, giganti e nani.