Intervista a Luigi Garlando, che dopo aver conquistato i piccoli lettori con le serie Gol! e avventure delle Cipolline, nel suo ultimo romanzo ’O Mae’parla di illegalità e di riscatto attraverso lo sport.
Giornalista alla Gazzetta dello Sport dal 1991, e prolifico scrittore (la sua serie Gol, avviata nel 2006, con protagonista la squadra di calcio delle Cipolline ha superato i 50 titoli pubblicati e 1 milione e mezzo le copie vendute), Luigi Garlando ha da poco vinto il Premio Frignano Ragazzi intitolato a Giuseppe Pederiali con il romanzo ’O Mae’ (Piemme, 2014). Protagonista di questa bella storia è Filippo — quattordicenne, figlio di un boss della camorra incarcerato in Sardegna e fratello minore dell’emergente e micidiale Carmine “Ninja” — che di “mestiere” fa la “sentinella” ai Sette Palazzi a Scampia per conto della camorra. Il ragazzo agisce in un contesto criminale simile a quello messo in scena in Gomorra, ma per un provvidenziale intervento dello zio finisce per varcare la soglia della palestra di Gianni Maddaloni — maestro di judo, allenatore e padre di campioni, coltivati con tenacia nella struttura napoletana — e per iniziare un suo complicato e molto accidentato percorso di crescita. Una storia di formazione scandita in 22 brevi capitoli, che copre tre difficili e intensi anni di vita del ragazzo, con un ritmo e uno stile narrativi che catturano il lettore come solo può fare un vero romanzo d’avventura. Su questo e altri “romanzi sportivi” abbiamo rivolto a Garlando alcune domande:
Nella postfazione a ’O Mae’ parla del suo scrivere per ragazzi come della realizzazione di un sogno, che ha cominciato a realizzarsi all’inizio degli anni 2000. A 15 anni da questa scelta e con all’attivo decine di pubblicazioni, come giudica oggi quest’esperienza?
Ho sempre saputo che scrivere sarebbe stata comunque un’esperienza positiva, perché quando i ragazzi mi chiedono che cos’è la scrittura io rispondo sempre che è “il mio gioco preferito” e nel momento in cui mi diverto a farlo sento di aver già vinto, a prescindere da quelli che sono stati i libri pubblicati. In particolare mi hanno dato molta soddisfazione e molte gratificazioni l’avvicinare i bambini piccoli alla lettura attraverso le storie della serie Gol e le avventure delle Cipolline, e il sapere che tanti ragazzi ora conoscono grazie ai miei libri personaggi come Giovanni Falcone.
’O Mae’ mette in scena l’illegalità, la violenza, il degrado, ma anche la speranza e il riscatto attraverso lo sport, fatto di sacrificio, disciplina e piacere del gioco. Ritornano in questo libro, prepotentemente, molti dei temi guida della sua narrativa e in particolare quello della legalità e del suo valore pedagogico per i giovani. Che peso attribuisce come uomo e come scrittore a questo principio?
Sono profondamente convinto che allenare quotidianamente il muscolo della legalità aiuti a costruire dei cittadini e degli uomini responsabili. Lo sport è una palestra privilegiata della legalità, e io ne ho un’altissima considerazione, perché vuol dire rispetto per la fatica, per l’avversario, per un regolamento, per il tempo (hai 90 minuti per giocare): credo che avere rispetto per le queste cose fondamentali significhi crescere nella legalità, ed è per questo che considero lo sport fondamentale.
I concetti di diversità e omologazione e l’anelito a stabilire ponti tra le culture e tra le persone tornano spesso nelle sue storie, si pensi per tutte a Buuu. In questi casi lo sport e il calcio, in particolare, fungono bene da catalizzatori. Possiamo parlare della sua come di una narrativa anche a vocazione interculturale?
Sicuramente, perché il mondo attuale è interculturale, e parlare ai ragazzi dell’integrazione è fondamentale: dobbiamo spiegare che la diversità non è una malattia da evitare ma è una occasione per crescere, perché arrichisce, e lo sport aiuta molto a fare da ponte tra le diverse culture e anche tra età diverse, mettendo insieme grandi e piccoli o ancora ceti sociali diversi. Lo sport aiuta anche a mettere insieme ceti sociali diversi, avvicina, è un ponte meraviglioso ed educa alla legalità.
’O Mae’, come altri suoi libri, sposa realtà documentaria (quella attestata dal giornalismo d’inchiesta e da una presenza nel romanzo di forti elementi di intertestualità) e mondo finzionale in maniera molto stretta; quanto si riconosce anche lei nella formula del narrative nonfiction (o literary nonfiction) attribuita a Gomorra di Saviano?
Nella mia letteratura c’è effettivamente lo stesso principio ispiratore di Saviano: la volontà di usare una parte di fantasia per spiegare ciò che è realmente esistente, che è poi uno dei grandi meccanismi di tutta la letteratura. Ho voluto parlare ai ragazzi di mafia, camorra, ma anche politica, attraverso una storia di fantasia perché secondo me hanno un grande bisogno della parte narrativa, hanno bisogno di trovare l’equilibrio tra realtà e finzione.
Veleggiando narrativamente tra concetti e valori importanti, come quelli che abbiamo fin qui sollevato, come è riuscito a evitare il rischio di tirare a bordo retorica, stereotipi e il “politicamente corretto”?
Dando molta attenzione al racconto, cercando di renderlo interessante e di non lasciare da solo il messaggio che si vuole trasmettere, altrimenti si corre il rischio di diventare troppo “grillo parlante”.
E poi non ho avuto paura di parlare nei libri anche di situazioni “anticommerciali”: per esempio, nel mio prossimo libro si parlerà di Che Guevara. Se avessi voluto difendere l’immagine di me come scrittore per famiglie, rassicurante, non avrei scelto un tema di questo tipo. Il politically correct non è la mia corda principale, io cerco di dare ai ragazzi una storia interessante, e la storia di Che Guevara lo è anche dal punto di vista umano.
(da LiBeR 105)