A partire da The frozen boy, il libro premiato dalla giuria di esperti di LiBeR come “Miglior libro del 2011”, un’intervista a Guido Sgardoli per parlare del “pericolo” dei generi e dei target d’età, ma anche della scrittura come occasione per riflettere su se stessi.
Il protagonista di The frozen boy è Robert Warren, uno scienziato che ha partecipato alla realizzazione della bomba atomica nella seconda guerra mondiale. Lo ritroviamo pochi anni dopo in una base militare della Groenlandia alle prese con il suo senso di colpa: è lì per condurre ricerche scientifiche; in realtà ha l’intenzione di suicidarsi, ma proprio nel momento in cui sta per dar fine alla sua vita vede sepolto nei ghiacci qualcosa che attrae la sua attenzione. Si tratta di un ragazzo ibernato, ancora vivo, al quale Warren dedicherà tutte le sue cure e attenzioni – quelle che non ha saputo dare al proprio figlio morto in guerra – cercando di sottrarlo alla controllo dei militari e a ogni possibile accanimento scientifico. Il romanzo tocca quindi temi importanti, dal ruolo della scienza alla paternità, dal riscatto morale agli affetti. Quale significato ha per te questa opera, che ha già ottenuto successo e riconoscimenti?
Mi sono semplicemente servito di lei per riflettere, su di me.
Guardandoci indietro, quante occasioni abbiamo mancato? Quante di queste vorremmo che tornassero per afferrarle e non lasciarle scappare nuovamente? Un primo bilancio di vita, di affetti, di lavoro. I figli, la famiglia, gli ideali, il tempo che scorre e il ridimensionamento degli obiettivi, ma anche l’inaspettata apparizione di nuove motivazioni, pensieri che ognuno di noi ha o ha avuto.
Ho cercato di riflettere sui limiti della scienza, sui suoi confini. Sul tempo, che avanza in una sola direzione sebbene a volte ci divertiamo a immaginare che così non sia, e sul vivere nel proprio tempo, sull’inutile esercizio di credere di trovarsi in un posto sbagliato o in un tempo sbagliato: siamo sempre figli del nostro tempo ed è l’ambiente che ci forma. Sul destino, del quale siamo artefici, di come ogni uomo sia legato inevitabilmente alla sorte di molti altri. E sull’accettazione della morte come componente della vita, perché vivere ha senso in quanto sappiamo che da qualche parte ci attende una fine.
Come spesso mi accade di fare, non ho pensato a chi avrebbe letto il libro. L’ho scritto per me. Era un libro, così mi pareva, che mi sarebbe piaciuto leggere. Ma per lo stesso motivo, mi sarebbe piaciuto anche condividere. è andata bene.
The frozen boy è un romanzo la cui lettura va oltre specifici target d’età e – nonostante gli argomenti di stampo fantascientifico e la trama avventurosa – non è rigidamente collocabile in un genere. La tua produzione è del resto tutta all’insegna della versatilità, riguardo a generi, temi e stili. Si passa da un libro all’altro e da un genere all’altro con grande facilità (dall’umorismo de Il disinfestatutto al giallo e al divertissement con Assassination, al romanzo storico e al feuilleton in Eligio S. e i giorni della ruota, al romanzo generazionale…) con ottimi risultati ogni volta e una scrittura matura. Come vivi questa tua caratteristica?
I generi sono pericolosi per chi scrive. Influenzano quello che vuoi fare e come lo farai. Non penso quasi mai a un genere per le mie storie. Penso alla storia. Mi chiedo se ha senso scriverla, se c’è bisogno di una storia così, se non rischia di somigliare ad altre già in circolazione e migliori della mia, se tra tutte le idee, i pensieri che ho in testa, sia davvero quella che merita di essere scritta. Sono queste le uniche domande che mi pongo.
Per la versatilità, a scrivere le storie sono le persone e le persone sono versatili nelle loro stesse vite. A me capita di fare delle storie semplici prolungamenti della mia vita, delle esperienze, dei sogni, dei desideri. È un po’ un luogo comune, ma i libri, che li si scriva o li si legga, servono ad assaggiare altre vite. Io non faccio eccezione.
Come sei giunto a scrivere per bambini e ragazzi? È stata una scelta precisa, determinata, oppure un percorso casuale? Anche per quanto riguarda il target dei lettori si va da storie per il primo ciclo delle elementari fino a romanzi per adolescenti. In qualche modo anche le tue opere si collocano nella produzione crossover di cui parliamo in questo stesso numero di LiBeR [n. 94]? E come riesci a tenere insieme questi pubblici così diversi?
Scrivere per ragazzi e in genere scrivere: mi verrebbe da dire che, nel mio caso, è stato casuale. Salvo poi scoprire, guardando indietro a quel che si è fatto, che quello che noi chiamiamo casualità è convinzione, volontà.
Ho iniziato da bambino a disegnare fumetti. Il fumetto implica l’invenzione di una storia che accompagni le immagini. Sicché, in pratica, scrivevo già le mie storie. Crescendo ho semplicemente abbandonato il disegno e mi sono concentrato sulle storie.
Dopo la nascita di mio figlio, quindici anni fa, mi sono avvicinato al mondo dei libri per bambini e per ragazzi, pensando forse di parlare a lui attraverso le storie che avrei potuto scrivere.
Ma le storie, tutte, trovano la loro strada, i loro lettori e il fatto anagrafico importa poco. Io ho scoperto Roald Dahl quando avevo già compiuto trent’anni. Eppure c’è ancora qualcuno che si intestardisce a definirlo scrittore per bambini.
Relativamente al tenere insieme pubblici diversi, la risposta è semplice e riprende quella sulla versatilità: sono io ad essere diverso, non il pubblico. Ed io ragiono su di me. Scrivo egoisticamente ciò che mi piacerebbe leggere e avendo interessi diversi e diverse situazioni emotive, non faccio che applicare faccende personali alle storie.
Faulkner diceva di scrivere ispirandosi alle verità universali, che hanno sede nel cuore dell’uomo e che sono immutabili, nel tempo e nelle età. è il denominatore comune che lega pubblici eterogenei.
Che tipo di lettore sei riguardo alle opere di letteratura per l’infanzia. Da alcuni tuoi scritti si capisce che i classici del genere li hai letti, direi “studiati”. E dell’attuale produzione editoriale che ne pensi?
Verne, Salgari, Kipling, Stevenson, i soliti noti. A tredici anni ho scoperto Edgar Allan Poe e a seguire ho scalato, neppure tanto metaforicamente, la libreria di mia madre, fornitissima di titoli considerati “per adulti”. Mi sono formato così, imparando parole difficili e misurandomi con concetti e pensieri che non sempre comprendevo. Da qui nasce il mio amore spassionato per una costruzione classica e per l’utilizzo di un italiano possibilmente senza tempo.
Ugualmente, nella letteratura contemporanea definita “per ragazzi”, apprezzo autori di impianto tradizionale. Uno su tutti David Almond.
Pur avendo iniziato a pubblicare abbastanza di recente la tua è una produzione letteraria già piuttosto ampia. Non possiamo esimerci dal proporti una curiosità: come concili il tuo lavoro di veterinario con lo scrivere a un ritmo così elevato e con tutto il resto, famiglia compresa?
Organizzazione è la parola chiave. E poi ridurre gli sprechi, come la televisione. Senza sacrificare tuttavia il tempo per pensare. Ho sentito Tony Earley dire che gli scrittori hanno necessità di pensare. E pensare richiede un tempo che equivale e forse supera in ampiezza quello dedicato alla scrittura vera e propria. Sono d’accordo.
Fin da quando ero studente liceale consideravo la vita un pranzo costituito da portate diverse. Non volevo abbuffarmi di una cosa soltanto, lasciare, ad esempio, che gli antipasti mi riempissero la pancia. Volevo assaggiare un po’ di tutto. La scuola, allora, non doveva prevaricare il resto.
Un principio che negli anni ho dovuto difendere, a cominciare dai miei genitori, ma che non ho mai smesso di praticare e che mi ha portato a quella versatilità di cui si parlava, a dimostrazione del fatto che il caso, a volte, è il nome che diamo alla nostra incapacità di collegare eventi apparentemente distanti tra loro.
(da LiBeR 94)