È il tempo delle distopie. Si riaffacciano nella narrativa contemporanea scenari apocalittici, provocati da catastrofi climatiche, disastri ambientali o “dopobomba” che riportano l’umanità alla lotta estrema per la sopravvivenza. Perché questa rinnovata insistenza degli scrittori sulle paure più forti del nostro inconscio collettivo; siamo ancora una volta nella realtà di fronte a una sindrome di fine/inizio millennio?
Nei prossimi mesi arriveranno tanti romanzi dystopian in libreria: alcuni buoni, alcuni mediocri, pochissimi molto buoni. Mi pare che si stia facendo di questo genere lo stesso uso che si è fatto qualche anno fa col fantasy: è una buona cornice generica in cui muovere una storia e far succedere un po’ quello che si vuole, con tutti i rischi del caso. Quanto a Bambini nel bosco, sono stata la prima a stupirmi di aver imboccato questa strada: non è un genere che frequento. Ma è anche vero che da ragazzina ho letto con passione Asimov, Orwell, Bradbury: e se noi siamo i libri che abbiamo letto, allora forse era fatale che a un certo punto tornassi al mondo della fantascienza.
In questo contesto i bambini protagonisti giocano un ruolo primario: pensiamo – oltre a Bambini nel bosco – ai recenti La strada di Cormac McCarthy, o a Bambini bonsai di Paolo Zanotti. Saranno davvero i bambini, ancora una volta, a salvare il mondo? Se ci riusciranno, perché? E gli adulti, quale ruolo potranno avere? Nel libro l’adulto Jonas, che controlla i bambini con un sistema di telecontrollo, in realtà programma una fuga…
Gli adulti buoni del mio romanzo sono prima osservatori e poi complici. È una considerazione a posteriori, però forse volevo dire proprio questo: che prima di entrare nel mondo dei bambini bisogna conoscerli, osservarli, impararli. E solo dopo un apprendistato di silenzioso impegno si può pensare di cominciare a costruire un legame rispettoso e sensato, un progetto di viaggio comune. Vale in senso lato: per chi vuole occuparsi di libri per bambini, ma anche per chi vuole occuparsi di bambini, dei propri, intendo. Quanto a loro, e alla loro possibilità di salvare il mondo, direi che hanno la capacità di ridurre le questioni all’essenziale: hanno bisogno di amore, di natura, di animali, di gioco, di cibo sano, di storie, di scuola, di futuro. Solo nei libri riescono a prendersi tutto da soli, a controllarlo. Ma nella vita vera hanno bisogno di noi e ci richiamano di continuo ai nostri doveri, tutti quanti.
Tom è uno degli Avanzi abbandonati dai genitori. È un forte lettore e convince i ragazzi del suo gruppo ad abbandonare il Campo e inoltrarsi nel bosco. Porta con sé dei libri e leggerà storie ad alta voce. Proprio le storie, in particolare le fiabe, sono nel libro gli elementi catalizzatori della coscienza dei bambini abbandonati. Grazie a esse si riconquista la propria storia, si riallineano i pensieri e le emozioni devastati dagli eventi. Noi siamo dunque ciò che riusciamo a raccontare di noi stessi? Quale peso hanno le storie nella costruzione della nostra identità?
Per me hanno avuto e hanno un peso fondamentale. Si può anche fare a meno dei libri, ma delle storie no; credo che senza libri né storie ci si condanni a una vita più povera di prospettive, intese come visioni di vite possibili, altre, diverse dalla nostra e vivibili per interposta carta e parola.
Veniamo alla tua produzione letteraria più generale. Dai primi libri per bambini ai racconti e romanzi per ragazzi ti sei cimentata in vari generi narrativi, rivolti a target d’età diversificati, senza farti imbrigliare in un’unica forma e mantenendo una produzione articolata. Come spieghi questa tua caratteristica e capacità di scrittura? C’è qualche “fascia d’età” con la quale oggi ti senti più in sintonia?
Mi piace cambiare le carte in tavola, non scrivere mai lo stesso romanzo, mutare registri, punti di vista, stile e linguaggio. Chiaro che scrivere per un bambino piccolo implica un atteggiamento più vigile, un controllo che ha comunque l’intensità di una sfida: dire quello che si vuole dire senza scendere a compromessi e senza perdere chiarezza. Non c’è una fascia d’età che prediligo, anche perché non penso per fasce d’età: ogni storia si presenta già con il suo corredo formale più adatto a un certo destinatario, che fatalmente ha più o meno l’età del protagonista, e così tutto si tiene.
In molte tue opere c’è una grande attenzione al femminile. Rammentiamo, nelle Sirene di EL, Signore e signorine (Premio Pippi) e La spada e il cuore, donne della Bibbia (Premio Elsa Morante) o le serie Belle astute e coraggiose, Scarpette rosa. In questo ambito hai toccato temi importanti, come il rapporto fra madre e figlia (Se è una bambina, Sono tossica di te…), la ribellione (Giù la zip), la competitività (Olga in punta di piedi), le violenze (Anna ritrova i suoi sogni). Come vivi questa componente del tuo lavoro di scrittrice in un settore – quello rivolto alle ragazzine – al quale oggi l’industria culturale, e l’editoria non è da meno, offre una produzione dominata da stereotipi?
Gli stereotipi sono sempre penosamente con noi, tutti i giorni, nella cronaca, nella pubblicità, alla televisione, mai come in questo periodo. È chiaro che disegnare personaggi non allineati vuol dire fare resistenza, per quanto sommessa, a questi modelli che non si possono passare impunemente alle bambine e alle ragazze. Ribaltando la questione, non c’è niente di male nel desiderare di essere una fata o una principessa, però fate e principesse devono usare il cervello e non fidarsi solo del loro fascino o di un po’ di polverina magica, perché non basta e non risolve i problemi. L’indagine sul mondo greco e biblico è più libera e più esplicita: quelle donne sono le nostre madri e progenitrici, e se guardiamo a loro è perché rispondano alle domande che ci poniamo – su di loro e su di noi - da quando qualcuno ne ha scritto o raccontato. E possono risponderci anche in un modo molto diverso dalla tradizione, se solo ci soffermiamo a considerarle come possibili persone intere e non solo come personaggi.
La tua esperienza in campo editoriale va oltre l’attività di scrittrice: traduttrice e “riscrittrice” di testi classici (Salgari, Stevenson, Kipling, Twain…) e di autori contemporanei (da Anne Fine a Natalie Babbitt, da Clive Barker a J.K. Rowling, della quale a partire dal terzo episodio hai tradotto la saga di Harry Potter); responsabile editoriale per Rizzoli. Hai quindi percorso e vissuto in profondità il complesso mondo del libro per ragazzi, acquisendo un’esperienza unica di questo mondo che fa di te un’osservatrice privilegiata delle tendenze e dei fenomeni che lo hanno caratterizzato. LiBeR con i suoi Rapporti da molti anni analizza questa realtà, fotografando la crescita che ha preso avvio dalla seconda metà degli anni ’80 e le sue contraddizioni, fino alla fase attuale, che vede un “equilibrio critico” tra impegno, intrattenimento e serialità. Qual è il tuo punto di vista?
Io vedo dominare l’intrattenimento, e in questo scatolone abita di tutto: libri molto buoni, ben fatti, ben scritti, costruiti con immaginazione, che magari non entreranno nello scaffale dei classici ma forniscono una felice evasione; e libri banali, derivativi, sgangherati, che s’infilano nella scia più popolare del momento cercando di trarre vantaggio dai successi altrui. L’impegno c’è, ma i libri impegnati hanno bisogno di mediatori per arrivare a bambini e ragazzi, e qui il lavoro più grande è quello di insegnanti e bibliotecari che fanno la fatica di spiegare, raccontare, leggere ad alta voce anche romanzi che un ragazzino da solo forse sfuggirebbe; e in questa parte della produzione vedo infilarsi tanti libri a tema e a tesi, didascalici, grevi. La serialità rischia di chiudere il lettore non troppo attrezzato – quello che la predilige - in un circolo vizioso, e ultimamente mi sembra solo capace di ripetere se stessa, il che detto così suona ovvio: intendo dire che si può anche fare serialità originale (penso a Una serie di sfortunati eventi), salvo poi vedere anche quel modello eccentrico replicato in variazioni infinite. In generale, e vale soprattutto per i grandi marchi, vedo un’editoria che sta alla finestra: che cosa fanno gli altri? Allora ci provo anch’io. È più rischioso ma molto più interessante dirsi: che cosa non fanno gli altri? Allora ci provo io.