L’economia ebbe una forte pressione per svilupparsi in senso industriale, anche se questo processo ebbe bisogno di molto tempo e tappe diverse (che andarono dal dopo-l’Unità all’età giolittiana, anche al fascismo - per alcuni aspetti, si pensi all’IRI - per poi decollare in pieno col “Miracolo Economico”, dopo il ’45) e di fatto l’industria divenne il primo settore produttivo (dopo gli anni ’50) e venne a cambiare la vita quotidiana, la mentalità, l’identità stessa dell’italiano medio. Anche se tale sviluppo industriale fu disomogeneo nel Paese e carico anche di conflitti, di carenze, di crisi.
Intanto anche l’alfabetizzazione giocava il suo ruolo: cambiava credenze, capacità e competenze. Alfabetizzazione scolastica (con le “tecniche di base” apprese dalla maggioranza della popolazione) e alfabetizzazione linguistica (l’italiano come lingua di tutti: ma ci vorrà la tv). E alfabetizzazione significava circolazione delle idee, diffusione dei giornali e dei libri. Anche se tale processo fu lento, troppo lento e ancora oggi manifesta, rispetto a quell’Europa in cui stiamo, di fatto e di diritto, sensibili deficit. Comunque una profonda trasformazione nella trasformazione avvenuta, e l’Italia è nata come nazione: come stato-nazione.
2. Ma gli “italiani” si sono formati?
Ma, a un tempo, anche l’italiano è nato? Quell’italiano che, diceva D’Azeglio dopo il 1861, era “da fare”. Sì e no. E questa è l’eredità problematica primaria che abbiamo ricevuto da questi 150 anni di Unità. L’italiano c’è, ma nel Paese dei “mille campanili”, di forti tradizioni regionali, è, insieme, unitario e polimorfo. E questo è, a un tempo, un di più e un rischio. Il di più di un’identità nazionale dialettica, in crescita tramite la stessa comunicazione interna tra aree regionali diverse. Il rischio della dis-unità, del regionalismo, della separazione almeno nelle formae mentis. Che ogni tanto riesplode e si fa problema.
Certo a dare più unità al Paese c’è oggi un’istruzione più diffusa, c’è un forte modello di cittadinanza attiva e responsabile connesso ai valori e alle norme della Carta Costituzionale, c’è uno stile di vita “occidentale avanzato” che ha prodotto un po’ ovunque una cultura moderna più vissuta; ci sono gli stessi mezzi di comunicazione di massa (che omologano, come ci ricordava Pasolini, ma che, anche, fanno circolare informazioni, idee, creano “reti” e costruiscono community, virtuali sì, ma ben reali nel virtuale). Tutto ciò è stato sì una lenta conquista, ma oggi sta immerso nella nostra vita sociale. E in tutta la penisola. Ed è, al tempo stesso, un imprinting(sia pure dinamico, sia pure carico di tensioni) di democrazia. Di democrazia in cammino.
3. Ombre, penombre e luci di un processo
Questo complesso processo, però, ha lasciato permanere e ha prodotto anche ombre dense. Che inquinano la realtà effettiva del Paese e che si infiltrano in tutta la sua vita collettiva. In primis le mafie: molte, diverse e sempre più diffuse. Siamo davanti a organizzazioni criminali sempre più potenti, che manovrano capitali ingentissimi e che si radicano sempre più nel tessuto sociale del Paese, anche in quello economico. E perfino in quello politico. E non da oggi. Lo stato unitario non ha saputo difendere la sua sovranità e ha lasciato sussistere questa “cancrena” sociale. E, oggi, tutti ne paghiamo le conseguenze.
A livello di penombre invece sussistono nel vissuto sociale del Paese-Italia arcaismi, diffusi e legittimati dal costume, i quali, però, inquinano la modernità del tessuto nazionale. Come il clientelismo, il lobbismo, il “familismo amorale” e gli effetti di “parentopoli”, di “furbismo” (come è stato detto), di “amoralismo” appunto, e nel privato e nel pubblico ben diffusi.
E poi il divario Nord/Sud che resta un problema aperto ancora oggi, per il divario nello sviluppo, negli atteggiamenti civili, etc. e che si ripropone come una sfida per la realizzazione, in Italia, di una democrazia compiuta. E ancora: la debole coscienza civile dell’italiano medio così legato al suo “particulare” e così poco sensibile alle regole e ai principi-valori collettivi.
Sì, tutto vero. Ma accanto a queste ombre e penombre ci sono anche le luci. La forza dell’associazionismo. La dedizione agli altri e alle cause umanitarie. Il tessuto del volontariato, che è ampio e radicato. E sono aspetti di umanitarismo che esaltano le qualità morali dell’italiano.
Allora: il tessuto morale e civile del Paese, dopo 150 anni di Unità, risulta carico e di potenzialità e di limiti. Aspetti che mandano un messaggio netto ai politici, ma anche agli intellettuali e alle varie agenzie della formazione. A cominciare dalla scuola.
4. Il ruolo della cultura e della scuola
La cultura, per l’Italia, non è un “di più”: è una struttura portante dell’identità stessa, dell’imprinting antropologico, delle stesse potenzialità economiche. Noi viviamo nel “giardino d’Europa” (come fu detto), in uno spazio di bellezza, d’arte, di saperi, di cultura, e tutte con la maiuscola. E tale identità, sentita nel passato, non è però cresciuta adeguatamente nell’Italia post-unitaria. Non si è fatta coscienza collettiva e valore nazionale primario vissuto e tutelato. E su questo dobbiamo agire sempre di più e con più consapevolezza. Come? Attraverso l’informazione. Attraverso l’istruzione. Attraverso la programmazione economica. L’informazione: ogni italiano dovrebbe possedere una netta coscienza dell’eccezionalità dell’habitat in cui vive e sentirlo come risorsa, di identità e di produttività. Ma dovrebbe sentire anche il dovere di tutelarlo, per sé, per il futuro, per l’umanità intera.
La programmazione economica: mettere al centro l’arte, la cultura, il sapere e il richiamo della bellezza. Allora si deve investire nella Ricerca, nella salvaguardia della Qualità (anche produttiva di temi di consumo ma esemplari, d’eccezione), nella Cultura (con mostre, festival, meeting):tutto ciò si fa, ma va fatto su più ampia scala.
La scuola: solo la scuola può creare e diffondere questa coscienza di cittadinanza culturale e di qualità. Legando ogni soggetto alla storia, all’arte, alla cultura italiana, che è stata poi nutrice di quella europea e vessillo dell’Occidente e capace ancora oggi, nell’orizzonte della mondializzazione in ascesa, di giocare un ruolo di alto significato. Certo c’è bisogno di una scuola anch’essa di qualità. Una scuola - appunto - dei saperi e della formazione. No di certo la scuola delle “tre I”. Una scuola di qualità. Che c’è, ma che va istituzionalizzata in pieno, va sostenuta, va potenziata. Con regole, con finanziamenti, con sperimentazioni. E non guardando all’indietro, a un’immaginaria scuola del “buon senso” che assomiglia molto (troppo) a quella dell’Italietta ancora sottosviluppata e provinciale.
(da LiBeR 89)