L’importanza degli alberi per la vita si manifesta ogni giorno con urgenza nel mondo che ci circonda, nei paesaggi rurali impoveriti a causa dello scempio umano, nei giardini che “nutrono” le città con profumi e colori. La riflessione di un esperto di colture arboree sulle “colonne che reggono il cielo” e il loro incerto destino.
di Giuseppe Barbera
Antonio ha tre anni e ha domandato a sua madre come mai gli alberi hanno una gamba sola. Ho suggerito una risposta: perché tra gli esseri viventi sono quelli che meglio tengono in equilibrio sé stessi, il mondo che li ospita e noi umani che li usiamo e ne abusiamo. Per queste grandi virtù sono stati dotati di profonde radici e di chiome ramificate, che per peso ed estensione si bilanciano, ma di un solo tronco.
Un detto degli indiani d’America vuole che “gli alberi sono le colonne che reggono il cielo”. E se intendiamo per cielo l’aria che respiriamo e l’atmosfera che filtra le radiazioni solari, che determina la temperatura terrestre e partecipa, con la pioggia e le nuvole, al ciclo dell’acqua, è proprio così. Gli alberi, molti milioni di anni fa, hanno sottratto all’atmosfera enormi quantità di CO2 e l’hanno conservata nel loro legno per poi sotterrarla, durante il Carbonifero, nelle viscere della terra e del mare contribuendo a ridurre valori di effetto serra che sarebbero stati talmente elevati da portare le temperature a soglie incompatibili con la permanenza dell’acqua allo stato liquido, con l’evolversi della vita. Nel medesimo processo fotosintetico che trasforma il carbonio inorganico nella materia organica - la morte minerale nelle forme viventi - hanno anche liberato le molecole di ossigeno necessarie alla respirazione. Oggi, la funzione degli alberi come magazzini di carbonio ritorna necessaria e dopo che, bruciando petrolio, carbone e metano, abbiamo rigettato nell’atmosfera il carbonio sottratto dalle foreste di milioni di anni fa, torniamo - lo chiedono gli accordi internazionali del protocollo di Kyoto - a piantare alberi per ritrovare un nuovo equilibrio che freni i cambiamenti climatici.
Nel corso della storia, l’uomo ha ridotto di un terzo le foreste che la Terra aveva distribuito sulla sua superficie per promuovere la vita e ancora adesso i disboscamenti continuano in piena incoscienza e senza tregua. Ogni anno scompaiono boschi per una superficie pari a tre volte quella della Sicilia! Così anche gli equilibri legati al ciclo dell’acqua vengono alterati: non ci sono più le immense superfici arboree che rallentano il precipitare delle piogge, che difendono il suolo dalle frane e dall’erosione della porzione fertile, che consentono all’acqua di infiltrarsi in profondità ad arricchire la falda freatica, alimentando i pozzi, tenendo lontana l’acqua salata del mare, impedendo alluvioni disastrose. Diminuisce anche l’evaporazione dai suoli e la traspirazione delle foglie e con essa il formarsi delle nuvole che non si trasformano in pioggia o rugiada a fermare l’avanzata dei deserti. Nei boschi che quotidianamente scompaiono, nella complessità ecosistemica che in nessun sistema vivente si mostra così elevata, si estinguono specie e varietà di una ricchissima, ma non inesauribile, diversità biologica. Scompaiono le piante, gli animali, i batteri dei biomi forestali: quelli che più assicurano al pianeta gli equilibri biologici che garantiscono il funzionamento dei cicli della materia, dei flussi dell’energia, della vita insomma.
Il contributo degli alberi alla sostenibilità ambientale non va considerato solo a livello planetario o continentale, perché è a ogni livello di scala che si manifesta e si riconosce con chiarezza. Nel mosaico del paesaggio, per esempio, nel quale le siepi, le alberate, i boschetti, i frutteti tradizionali costituiscono i nodi e i corridoi di una complessa rete verde che connette il territorio e che assicura i processi ecologici, gli scambi tra i diversi livelli di biodiversità (i geni, le specie, gli ecosistemi) rendendo più fertili i campi, più sicuri i fiumi, più puliti i laghi e le falde, più felici gli sguardi, le passeggiate e i pensieri tranquilli che le accompagnano. “Non è l’Italia piantata ad alberi in modo da sembrare tutta un frutteto?” si domandava Varrone nel De re rustica. Parlava dei paesaggi rurali più belli del mondo, capaci di produrre la magnifica frutta che la storia dell’uomo - attraverso i commerci e le esplorazioni - ha raccolto nelle coltivazioni a far compagnia alle specie autoctone (l’olivo, il castagno, la vite, il fico) nelle piantate lungo i fossi di campi di pianura, nei giardini protetti da mura, nelle pedate delle terrazze che hanno trasformato le pendici delle montagne in un susseguirsi di strette pianure. Nei boschi, la biodiversità nazionale, per fornire legna da ardere e da opera, sughero, funghi, miele e frutti selvatici, ha avuto poco bisogno di intrusioni esotiche - la robinia, l’ailanto, molti secoli fa il cipresso - e con il centinaio di specie che costituiscono la sua ricchezza, guarda dall’alto quella trentina appena che forma i boschi dell’Europa continentale.
Il paesaggio agrario è invaso da scempi, abusivismi, opere inutili. È il segno dell’identità collettiva, palinsesto della nostra natura e della storia; è, ma potrebbe esserlo molto di più, occasione culturale, quindi turistica, quindi economica. È invece soprattutto aggredito proprio lì dove è più antico e più bello: attorno alle città che ha rifornito di alimenti dolci e vitaminici, di profumi, di sicurezza ambientale, di occasioni di svago. Lì sono nati i giardini; luoghi popolati dagli alberi dove la natura e la cultura dell’uomo, con le sue diverse arti e mestieri, si è espressa al meglio mostrando in poetica armonia, nell’alternarsi delle stagioni e nel variare delle architetture, forme e colori. Nei giardini e nei parchi, leggendo o discutendo all’ombra di un albero, rincorrendosi tra di essi o, dove è ancora possibile, arrampicandovisi per allontanarsi dal mondo infelice degli adulti è possibile che l’equilibrio si manifesti ben oltre i confini della biologia e dell’ecologia e si confronti con quello della psiche. Ci riguarderà allora non solo la qualità dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo e del cibo di cui ci nutriamo ma anche dei pensieri con i quali cresciamo. Forse è per questo che Charles Dickens suggeriva che in giovane età ognuno piantasse un albero (indicava, chissà perché, un fico) al quale da adulto appoggiarsi e riflettere.
(da LiBeR 89)