Rebecca (1938)
di Daphne Du Maurier, 1907-1989
Rebecca deve, a un tempo, al genio di Alfred Hitchcock, che lo trasferì al cinema nel 1940, una splendida rilettura per immagini ma anche una ermeneutica limitativa che ne ha molto abbassato i livelli di lettura. Ma a una lettura adolescenziale – che per questo libro è poi l'unica davvero lecita e determinante – tutti i temi veri del romanzo riappaiono a rendere possibile una intensa ermeneutica da non lasciare smarrire. C'è il rapporto tra Amore e Morte, quello che, insieme alla Carne e il Diavolo (qui sottaciuti) definisce una linea interpretativa che va dai romantici fino ai poemi medioevali. C'è la Memoria, che si confonde, si smarrisce, si ritrova, tra i meandri di una vicenda dotata di un "prima", quello della Prima Moglie, in cui il tempo è condizionante, ricattatore, ossessionante. Gli adolescenti che oggi ricevono le turpitudini multimediali sugli amori scurrili raccontati poveramente, qui ritrovano il senso misterioso di un sentimento complicatissimo che l'autrice volutamente non decifra e non disvela. Giustamente, gli adolescenti non vedranno scodellata una miserevole soluzione, perché non accade così nella vita, dove tutto è complesso, indecifrabile, ossessivo, incerto, rabbuiato. L'amore vero può essere quello della governante per la splendida padrona, di Maxim per la sua "seconda moglie", di Rebecca per l'eros e per la vita, di Daphne per la sua lucente e tetra Cornovaglia. E, come l'amore, neppure il volgere del tempo si decifra davvero: questo è un romanzo che può far crescere, che può far maturare. Esce infatti dalle livide certezze offerte dai magazine femminili dei grandi quotidiani, ma, proprio come Rebecca, è passionale, vitalista, ingordo. Romanzo di formazione, anche, perché quando la "seconda signora De Winter" comincia a scrivere, si comprende che è maturata e che ora "sa".
I pittori di riferimento sono quelli di Bloomsbury e Dora Carrington