La stanza del vescovo (1976)
di Piero Chiara, 1913-1986
Ci sono varie complesse ragioni che inducono a proporre, a una lettura adolescenziale, l'opera di Piero Chiara. Lo scrittore è un osservatore molto particolare che, per definire la propria ottica insolita e finissima, utilizza l'ermeneutica del racconto poliziesco, la finezza percettiva della tradizione libertina, lo sguardo che si rende sociologicamente acuto spiando la nascosta complessità della vita di provincia. E questa, per altro, non è la provincia centro-italica a cui film, romanzi, sceneggiati televisivi ci hanno da tempo abituati, ma è l'inconsueto Nord Italia dei laghi, delle valli, delle ampie superfici coltivate a riso.
Così Chiara si offre agli adolescenti, che hanno proprio bisogno di un "maestro di osservazione" che diriga il loro sguardo verso fatti, persone, figure, stereotipi, sui quali solitamente i giovanissimi non indugiano perché condizionati da modelli inibenti, planetari, privi di spessore.
Anche l'anno, il 1946, scelto per ambientare in esso il succedersi di queste storie di provincia, è fondamentale nei confronti di un'ottica da proporre agli adolescenti. È un anno, infatti, che contiene dubbi, incertezze, misteri, incongruenze, perché la guerra ha sconvolto anime, luoghi, cose, regole, consuetudini. Un anno, pertanto, da proporre in quanto tale alla percezione degli adolescenti sempre sospesa tra creatività e stereotipi.
Un dubbio può cogliere il pedagogista della lettura che si azzarda a proporre Chiara agli adolescenti, e riguarda l'abbondanza dell'eros, tipica sempre di questo autore, ma qui soprattutto significativa. Abbandonati ormai i vecchi, patetici schemi dell'"educazione sessuale", si pensa che un eros colto, definito da una specifica antropologia culturale, possa suscitare discussioni, richieste di informazioni, voglia di capire.
Nel film di Dino Risi, del 1977, La stanza del vescovo, trionfa un grande Ugo Tognazzi.
Il pittore di riferimento è Leo Longanesi