Un testo di Antonio Faeti su Il giovane Holden, icona del passato su cui riflettere ancora oggi, prodotto per l’incontro del 20 ottobre 2009 al corso bolognese “Le doppie notti dei tigli”. Un’anticipazione da di LiBeR 85 (gennaio-marzo 2010) in occasione della morte del grande scrittore americano.
L’eterno ragazzo della guerra di Corea
di Antonio Faeti
Erano venuti, dalla Toscana, anche gli amici di LiBeR, per la prima lezione del corso “Le doppie notti dei tigli”, dedicata al romanzo di Salinger Il giovane Holden, e, nel salutarli con gratitudine, avvertivo tutta l’importanza pedagogica di questa presenza. Sì, ho pensato all’Inattuale nel proporre, da ottobre a maggio, la rilettura di 25 libri quasi perduti nell’ambigua luccicanza di ciò che è amato ora, però noi cultori dell’Inattuale possiamo sentirci anche soli, anche perduti in una nebbia di una totale incomprensione.
La lezione è incominciata mentre mi sentivo soprattutto pervaso dalla lontananza storica di Holden; ero reduce da una trepida rilettura che mi aveva immerso non nei primi anni Sessanta – quando ebbi in mano l’edizione einaudiana del volume – ma nel decennio in cui Salinger aveva messo in treno il suo ragazzo bugiardo, allontanandolo dal college. Oggi al cupo, nebbioso tormento degli anni Cinquanta, gli anni che sono davvero di Holden, quasi non si guarda: devo, in questo senso, ricordare come Sergio Bonelli, con una delle sue splendide intuizioni, aveva scelto proprio quel periodo per far vivere, in esso, il suo affascinante Mister No. Sono gli anni della guerra fredda, delle spie, della Corea, dell’“oltre cortina”, del torvo contrapporsi di due identità, Noi e Loro, non sancito dagli assalti come a Verdun o dai massacri come a Oradour, ma da un penetrante senso perenne, onnipresente, di odioso silenzio, di catacombali frenesie tanatologiche, di immane, planetaria menzogna.
Del gelido dubbio mortifero che copre gli anni Cinquanta, Holden è oggi l’icona più sofferta, più autentica, più capace di proporci un paradigma che spiega l’inattualità vera del libro mentre lo rende così dolorosamente tutto nostro. Spinto dall’urgenza della rilettura, ho per la prima volta sottratto il mio Holden all’era dei Beatles, del sorriso di Kennedy, dell’Informale, della Pop Art, della nouvelle vague, del Gruppo 63, per ricondurlo alla caduta di Dien Bien Phu, all’apoteosi delle spie, alla spettrale risonanza occulta della bomba che tanto influì sull’infanzia del maestro dell’horror, Stephen King.
Per capire Holden davvero si dovrebbe organizzare un cineforum, inattuale e profetico come il pensiero di don Primo Mazzolari, che inventò il cineforum. Sono quattro film inquietanti e allusivi, di quelli a cui si affida volentieri quella Storia che non si fida degli storici. Cocktail per un cadavere, del 1948, di Alfred Hitchcock, I vinti di Michelangelo Antonioni, del 1952, I vitelloni, del 1953, di Federico Fellini, Frenesia del delitto, di Richard Fleischer del 1959. In nessun libro che io abbia letto esiste questa condensazione, spettrale e chiarissima, di chiavi interpretative assegnate, con geniale rigore, a quell’età del sospetto (come la chiamò Sarraute) a cui appartiene anche Holden. Con Monaldo che parte solo alla fine, con i “vinti” che avvertono solo il peso di una sconosciuta catastrofe, con i ragazzi di Hitchcock e di Fleischer che uccidono per provare a se stessi che sono vivi, uno squarcio si apre sul gelido decennio della guerra fredda. Si comprende, allora, che l’era delle spie deve avere condizionato in certi modi, nel silenzio, nel timore, nel torpore, le giovani vite di una generazione che doveva usare le metafore perché si sentiva condannata dall’onnipresente sospetto, e solo da quello.
C’è un sintomo notevolissimo a cui si dovrebbe assegnare molta importanza. Perché Holden era apparso tempestivamente da noi: il libro era intitolato Vita da uomo, era stato tradotto da Jacopo Darca nel 1952 per l’editore Gherardo Casini, senza successo. Noi, allora, non potevamo capirlo perché stavamo vivendo una stagione che ci rendeva diversi dai nostri alleati dell’Occidente. Dopo la nostra guerra civile eravamo come i Sudisti e i Nordisti, ma soprattutto eravamo i cittadini di un metaforico Sud, sconfitto e umiliato che cercava vanamente se stesso tra nostalgie torbide e sanguinose censure. Holden, invece, era l’icona legittima di un vero dopoguerra a cui non eravamo ancora pervenuti.
Solo per caso, ovviamente – perché il corso l’avevo progettato e interamente definito in primavera – ho potuto raccogliere via via, nel corso dell’estate, molti articoli scritti a proposito di un misfatto temuto: qualcuno voleva scrivere e stampare un “seguito” di Holden, e Salinger si è battuto contro questa intenzione e ha poi vinto la sua battaglia. I giornali, dell’invisibile autore del Giovane Holden, hanno mostrato il volto novantenne, trasferendo subito, dall’autore al personaggio, considerazioni, valutazioni, ansie, timori. Si vedeva ovunque un terribile volto di vecchio angosciato, un volto pervaso di spettrale tristezza, in cui la protesta si faceva annuncio di morte. E noi che abbiamo amato Holden proprio nella nostra giovinezza, ci sentivamo a disagio, soffrivamo, pativamo, cercando in noi stessi le ragioni della nostra malinconia. Sono un cultore del rifacimento, amo il prolungamento e mi interessano le diramazioni: vedo volentieri Jim vecchio con il volto di Silver, Rossella piena di rughe, i ragazzi della via Pal diventare temuti dirigenti all’epoca di Kadar, ma non sopporto Holden con il volto di Salinger vecchio.
L’icona Holden non può invecchiare, abbiamo assolutamente bisogno di lei, è più importante oggi di quanto lo fosse al suo primo dialogare con i giovani americani di 60 anni fa. Intanto, due libri straordinari sono stati avvicinati a Holden, rendendolo ancora più ricco, colto, oniricamente pervaso di più ampi contenuti: La signorina Else di Schnitzler e I turbamenti del giovane Törless di Musil. Così il valore emblematico di Holden ha acquisito la possibilità di dialogare, di confrontarsi, di cercare un altro spessore metaforico.
Viviamo nell’età del narcisismo di massa, si parla spesso della generazione dei bamboccioni; il colloquio con i giovani, timorosi di lasciarsi andare e compromettersi, rammenta Partinico, i “pizzini”, gli uomini silenziosi nel sole dell’isola; il nuovo rettore dell’ateneo bolognese ha definito analfabeti i giovani che sostengono le prove di accesso alla sua università: che cosa si deve dire di tutti questi sintomi?
In fondo, collegando Holden a uno splendido racconto di Salinger, Un giorno ideale per i pesci banana, si nota un colloquio ancora più rilevante con i temi e i problemi dei nostri giorni. Il protagonista del racconto è un Holden che si suicida, e il dopoguerra americano illuse tanti giovani con la speranza di trovare facilmente i pesci banana.
Con Holden si dovrebbe ritornare ad altre fonti letterarie, forse proprio le stesse che ama anche lui. Infatti il libro di Holden è, appunto, un libro, e non si può eludere la ricerca della responsabilità di chi nega la lettura o la impedisce. Mentre Holden fugge, mente, deride, si astrae, imbroglia, nega, è lui stesso un libro, ovvero è anche il rimedio mentre fa la diagnosi dei mali.
Sembra di poter affermare che si deve tornare a Holden. La volgarità di chi cercava alibi nel silenzio mafioso di chi non ha parole perché teme di compromettersi, non appartiene a Holden, che deride, che in fondo spera, che si rende cavalleresco garante nei confronti della sorellina. Avulso come è dalla storia, dalle date, dai riscontri epocali di un mondo poco studiato, Holden deve essere ritrovato, riletto, sottoposto a nuovo commento. Detesta tutto ciò che è inautentico, conduce questa sua battaglia riga dopo riga, parla in nome del suo autore che, nell’aspro inverno delle Ardenne, smarrì per un po’ la ragione e la ritrovò pagando un prezzo molto alto: la tristezza perenne, un odio per gli altri che rammenta quello di Gulliver, un disprezzo solenne per la futilità vergognosa delle apparenze.
Così attuale, dunque, da ribadire ancora una volta il tema della lettura: perché ci fu chi lo rifiutò in edizione Casini, chi lo definì decadente e dannunziano in edizione Einaudi, ci fu chi lo elesse a figlio del secolo per la sua noncuranza e, soprattutto, ci fu chi non lo lesse mai, chi se ne privò. Siamo sempre in tempo a rimediare.
(da LiBeR 85)
Le illustrazioni sono di Antonio Faeti
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