Carla Poesio ha rivolto qualche domanda a Marie-Aude Murail, autrice di Oh Boy!, romanzo che tratta di omosessualità, che ha riscosso il maggior numero di preferenze degli esperti di LiBeR come miglior libro del 2008.
Nella sua attività di scrittrice lei ha seguito un percorso che generalmente gli scrittori fanno al contrario. Ha infatti cominciato con libri per adulti e poi ha optato per la letteratura giovanile. Quali sono le ragioni di questa scelta che pone accanto ai lettori giovani anche molti adulti?
I miei due romanzi per adulti sono autobiografici. Sentivo di non poter raccontare ai “grandi” storie che non avrebbero ascoltato se io non avessi detto la verità. Trovare il pubblico dei bambini e poi quello degli adolescenti mi è stato di grande conforto. Avanzo mascherata, protetta dai miei personaggi e provo l’intenso piacere di vivere mille vite.
Ma, col passare degli anni, mi sono accorta che i miei giovani lettori prestavano i miei libri ai loro genitori e li dividevano con i loro insegnanti. Adesso dunque posso raccontare le mie storie ai lettori di tutte le età e penso talvolta alla dedica che Saint Exupéry scrisse per Il piccolo principe: “A Léon Werth, quando era un bambino.”
Scrivo per quelli che sono giovani e per gli adulti quando si ricordano di esserlo stati.
L’argomento della sua tesi alla Sorbona fu l’adattamento di testi classici per i ragazzi. Qual è il classico a cui si sente più vicina nella sua attività letteraria per i giovani? Dickens, di cui ha scritto una biografia?
Dickens è il mio modello in cielo e in terra. Veglia su di me, ben arroccato sulla mia scrivania. Ho imparato l’inglese proprio per leggerlo in lingua originale, ho avuto una borsa di studio dal British Council per andare a vivere un mese vicino a lui, a Londra, e là mi sono recata sulla sua tomba nell’Abbazia di Westminster per chiedergli: “Charles, fammi diventare una scrittrice.”
Ho scritto la sua biografia per ringraziarlo di tutto quello che mi ha dato, sia come lettrice che come scrittrice, per trasmetterlo alle giovani generazioni. Ho terminato da poco di scrivere Miss Charity, un romanzo vittoriano che è come l’iniziazione dei miei giovani lettori agli autori anglosassoni che amo di più: Dickens in testa, poi Jane Austen, le sorelle Bronte, Oscar Wilde e Bernard Shaw. L’altra epoca letteraria che prediligo è il XVII secolo francese: Molière, La Bruyère, Corneille, Perrault, e Racine più di tutti. Amo l’eleganza di questi autori, la loro concisione e, per quanto riguarda Racine, le passioni contenute. Nella letteratura giovanile, bisogna spesso suggerire, non esibire.
Nelle vicende narrate in Oh, boy! i personaggi principali sentono – ognuno a suo modo – il desiderio di un rapporto familiare intenso. Lei crede nel valore della famiglia oggi? Pensa che sia giusto – e perché – presentare i molteplici aspetti di questo tema nei libri per ragazzi?
Penso che soprattutto la letteratura giovanile sia una letteratura familiare, qualcosa che permette scambi di opinione in famiglia e tra generazioni diverse, un po’ come il film per ogni tipo di pubblico o il telefilm in prima serata. Inoltre, nei miei romanzi, cerco di togliere i recinti esistenti in questa nostra società in cui si mettono, ben separati, i bambini a scuola, i vecchi tra i rottami e gli adulti al lavoro. Io cerco di farli vivere e parlare tutti insieme. Sento una particolare tenerezza per tre età della vita altamente metafisiche che hanno bisogno di questa specie di compensazioni umoristiche: i bambini da 3 a 5 anni, che domandano ai genitori, specialmente la notte, “Perché viviamo se dobbiamo morire?”; gli adolescenti tra i 12 e i 30 anni, che si domandano a che serve vivere se nessuno si accorge che siamo al mondo; le persone di 80 anni e passa, a cui piacerebbe tanto sapere se la morte è un altro modo di essere vivi.
Ecco perché nei miei romanzi si trovano bambini come Venise, adolescenti come Bart, Siméon, Kléber, vecchi come il signor Villededieu. È la famiglia umana in cui credo.
Oh, boy! è uscito in Italia sette anni dopo la prima edizione francese. Come fu accolto in Francia nel 2001 questo libro per adolescenti col tema dell’omosessualità radicalmente vissuta da uno dei protagonisti? Ci furono delle riserve o delle critiche?
I bambini sono generalmente sprovvisti di pregiudizi di qualunque natura essi siano. Con loro si può parlare di tutto molto liberamente. Con gli adolescenti le cose si complicano: il razzismo, l’omofobia, il sessismo possono insinuarsi in loro come una cisti, spesso per paura dell’Altro, della sua non-conformità e anche per una paura celata di essere loro stessi dei non-conformi. Come si fa a lottare contro questa paura? Col riso, con un riso benevolo che fa abbassare la guardia. Bart, il mio eroe gay, è un personaggio spassoso: fa ridere di lui e con lui. Ma è anche un vero eroe di letteratura giovanile, in quanto progredisce attraverso delle prove. E i miei giovani lettori non s’ingannano davvero, perché, quando mi dicono “l’eroe”, si tratta sempre di Bart, anche se ci sono vari altri personaggi nel romanzo che meriterebbero questo appellativo e con i quali i lettori potrebbero identificarsi. E per terminare con Bart, ecco un aneddoto. Ho incontrato molti giovani nelle scuole grazie a questo romanzo. Un giorno ho visto entrare nella classe tutte le ragazze che si sono sedute ai loro posti. Poi mi sono passati davanti tutti i ragazzi ancheggiando in modo manierato e rivolgendomi ciascuno un “Oh boy!” quando mi stava di fronte. Ero rimasta già un po’ sorpresa, quando le ragazze mi hanno dato il colpo finale chiedendomi: “Allora, chi è che ha fatto meglio Bart?”
Vuole parlarci dei motivi che l’hanno spinta a scegliere per alcuni suoi libri per adolescenti argomenti scottanti come, a esempio, l’aborto ne La fille du docteur Baudoin, o la scuola e gli emigrati in Vive la Republique, o l’handicap in Simple?
Siccome scrivere mi stanca molto fisicamente e psichicamente, mi ci vuole una forte motivazione per farlo! Scrivere per non dir niente non m’interessa affatto. Dunque: perché io mi metta a scrivere di slancio un romanzo per adolescenti mi occorrono nello stesso tempo una trama, dei personaggi e un tema. La trama è una questione di mestiere e di padronanza. I personaggi li prendo dal mondo che ho intorno a me, dai miei ricordi letterari o cinematografici, dai miei fantasmi. Quanto al tema, sento che mi si impone come una urgente necessità. Bisogna parlare di “questo”.
Proprio sentendo parlare a “France Info” di un villaggio nell’est della Francia in cui genitori e insegnanti occupavano la scuola primaria per protestare contro l’espulsione di un’intera famiglia algerina assai bene integrata, mi sono resa conto che dovevo mettere una storia come quella al centro del mio Vive la Republique. Era urgente.
Per La fille du docteur Baudoin, non l’avrei scritto se non mi fossi incontrata con una ragazza che aveva appena affrontato questa prova. È una prova che riguarda in Francia 10.000 adolescenti all’anno e una donna su due nel corso della sua vita. Tuttavia questo viene nascosto, non se ne parla, è ancora tabù. Eppure è urgente parlarne: io mi sento subito bruciare le labbra… Allora, ecco, mi metto a scrivere.
Quanto a Simple, il mio povero idiota, è come Bart: è uno che sta al margine, uno che potrebbe far paura. È urgente, perciò, che io lo faccia amare.
L’andamento narrativo del suo romanzo è caratterizzato da battute, notazioni, osservazioni in chiave umoristica. Alcune sdrammatizzano certi momenti del racconto, senza alterare la profondità del significato o l’atmosfera delle situazioni. Che cosa pensa come scrittrice della forza e della validità dell’humour?
Utilizzo tutte le forme del comico: dal gioco di parole all’humour nero e non rendo certo il compito facile ai miei traduttori. In Oh, boy! alterno una fetta di soap opera a una fetta di sit com, o, per usare un linguaggio più letterario, un tempo di dramma a un tempo di commedia. Come dice Beaumarchais: “Mi affretto a riderne per non avere poi da piangerne.”
L’humour serve per una ripresa di se stessi, per mettere sotto controllo le proprie emozioni; è uno sforzo, è una conquista, ma è anche un’arma, una forza, una armatura. In quanto scrittrice mi permette di restare pudica, ellittica, leggera, anche quando la carica emotiva è pesante, perfino quando la critica sociale è incisiva. In quanto madre di famiglia l’humour è la mia salvaguardia, da una parte per sopportare i miei figli, dall’altra per dire loro ciò che penso senza esasperarli (troppo).
(da LiBeR 82)
Interview de Carla Poesio
à Marie-Aude Murail
Dans votre travail d’écrivain vous avez suivi un parcours que les écrivains font généralement dans l’autre sens. Vous avez commencé avec des livres pour adultes, puis vous avez opté pour la littérature de jeunesse. Quelles ont été les raisons de ce choix?
Mes deux romans pour adultes sont autobiographiques, j’avais le sentiment que je ne pouvais pas raconter d’histoires aux «grands», qu’ils ne m’écouteraient pas si je ne disais pas la vérité ! Trouver le public des enfants puis celui des adolescents a été un immense soulagement. J’avance masquée, protégée par mes personnages, et j’ai l’intense plaisir de vivre mille autres vies. Mais je me suis aperçue au fil des années que mes jeunes lecteurs prêtaient mes livres à leurs parents et les partageaient avec leurs enseignants. Je peux donc maintenant raconter mes histoires aux lecteurs de tous âges et je pense parfois à la dédicace que fit Saint-Exupéry pour Le petit Prince: «À Léon Werth quand il était petit garçon». J’écris pour ceux qui sont jeunes et pour les adultes quand ils se souviennent de l’avoir été.
J’ai lu que le sujet de votre thèse à la Sorbonne avait été l’adaptation pour les enfants des textes classiques. Quel est l’écrivain classique dont vous vous sentez le plus proche dans votre travail d’écrivain jeunesse? Dickens, dont vous avez écrit la biographie?
Dickens est mon modèle sur terre et dans les cieux, il veille sur moi, accroché juste au-dessus de mon bureau. J’ai appris l’anglais pour le lire dans le texte, j’ai obtenu une bourse du British Council pour aller vivre un mois près de lui à Londres, et là, je suis allée sur sa tombe à l’abbaye de Westminster pour lui demander:
- Charles, fais de moi un écrivain.
J’ai écrit sa biographie pour le remercier de tout ce qu’il m’a donné en tant que lectrice et écrivain, pour le transmettre aux jeunes générations, et je viens d’écrire Miss Charity, un roman victorien qui est comme une initiation de mon jeune lecteur à mes auteurs anglo-saxons chéris : Dickens en tête, puis Jane Austen, les Brontë, Oscar Wilde et Bernard Shaw. Mon autre époque littéraire de prédilection est le XVII siècle français, Molière, La Bruyère, Corneille, Perrault, et Racine plus que tout. J’aime l’élégance de ces auteurs, leur concision et chez Racine les passions contenues. En littérature jeunesse, il faut souvent suggérer, et pas exhiber.
Dans Oh, boy ! les personnages principaux sentent – chacun à sa façon – le désir d’une vie de famille intense. Vous croyez en la valeur de la famille aujourd’hui ? Pourquoi en présenter les multiples aspects dans un livre pour la jeunesse ?
Je pense surtout que la littérature de jeunesse est une littérature familiale, quelque chose qui permet d’échanger en famille et entre générations, un peu comme le film tout public ou le téléfilm « prime time ». Plus encore, j’essaie dans mes romans de décloisonner cette société qui met les enfants à l’école, les vieux à la casse et les adultes au boulot, j’essaie de les faire vivre et parler ensemble. J’ai une tendresse particulière pour trois âges de la vie hautement métaphysiques qui ont besoin de ce fait de compensations humoristiques:
- les enfants de trois à cinq ans qui demandent à leurs parents et de préférence la nuit: «Pourquoi on vit si on doit mourir?»
- les adolescents entre douze et trente ans qui se demandent à quoi ça sert de vivre si personne ne s’aperçoit que vous existez…
- les personnes de 80 ans et plus qui aimeraient bien savoir si la mort est une autre façon d’être vivant.
Voilà pourquoi on trouve dans mes romans des jeunes enfants comme Venise, des adolescents comme Bart, Siméon, Kléber, des vieilles personnes comme monsieur Villededieu. C’est la famille humaine en laquelle je crois.
Oh, boy! a été publié en Italie sept ans après la première édition française. Quel fut en 2001 l’accueil que reçut en France un livre pour adolescents avec le thème de l’homosexualité radicalement vécue par un des protagonistes ? Est-ce qu’il rencontra quelques réserves ou critiques ?
Les enfants sont généralement dépourvus de préjugés de quelque nature que ce soit. Avec eux, on peut parler de tout, très librement. Les choses se compliquent à l’adolescence, c’est à ce moment-là que le racisme, l’homophobie, le sexisme peuvent s’enkyster, souvent d’ailleurs par peur de l’Autre, de sa non-conformité, et aussi par peur inavouée d’être soi-même non-conforme. Comment lutter contre cette peur ? Par le rire, un rire bienveillant qui fait baisser la garde. Bart, mon héros homo, est un personnage drôle, il fait rire de lui et avec lui. Mais c’est aussi un vrai héros de littérature jeunesse, en ce qu’il progresse à travers des épreuves. Et mes jeunes lecteurs ne s’y trompent pas, car quand ils me disent “le héros”, il s’agit toujours de Bart, alors qu’il y a bien d’autres personnages dans le roman qui mériteraient ce titre et auxquels ils pourraient s’identifier. Pour en finir avec Bart, juste une anecdote. J’ai rencontré beaucoup de jeunes dans les écoles à propos de ce roman. Un jour, j’ai vu entrer dans la salle de classe toutes les jeunes filles qui se sont assises à leur place. Puis tous les garçons sont passés devant moi en se déhanchant de façon maniérée et en me jetant au passage : “Oh, boy!”. J’étais déjà un peu surprise quand les filles m’ont achevée en me demandant :
- Alors, c’est lequel qui fait le mieux Bart ?
Voulez-vous parler des motifs qui vous ont poussée à aborder dans quelques-uns de vos livres pour ados des thèmes brûlants, comme par exemple l’avortement dans La fille du docteur Baudoin, ou l’école et les émigrés dans Vive la République, ou le handicap mental dans Simple?
Parce qu’écrire me fatigue physiquement et psychiquement, il me faut une forte motivation pour m’y mettre ! Écrire pour ne rien dire ne m’intéresse pas. Donc, pour que je me lance dans un roman pour ados, il me faut à la fois une intrigue, des personnages et un sujet. L’intrigue, c’est une question de métier et de maîtrise. Les personnages me sont fournis par mon environnement, mes souvenirs littéraires ou cinématographiques et mes fantasmes. Le sujet, lui, s’impose à moi comme une urgence. Il faut parler de “ça”. C’est en entendant sur France Info parler d’un village dans l’Est de la France où les parents et les enseignants occupaient l’école primaire pour protester contre l’expulsion de toute une famille algérienne très bien intégrée que j’ai su que je devais mettre une histoire comme celle-là au coeur de Vive la République! C’était urgent. Pour La fille du docteur Baudoin, je ne l’aurais pas écrit si je n’avais pas croisé sur ma route une jeune fille qui venait de traverser cette épreuve. Cela concerne en France 10000 adolescentes par an et une femme sur deux au cours de sa vie. Pourtant, on le cache, on le tait, c’est encore tabou. C’est urgent d’en parler, soudain, ça me brûle les lèvres... Alors, voilà, j’écris. Quant à Simple, mon idiot, c’est comme Bart, un marginal, quelqu’un qui pourrait faire peur. Il est donc urgent que je le fasse aimer.
Oh, boy! est émaillé de remarques, répliques, observations humoristiques. Quelques-unes dédramatisent certains moments de l’histoire sans en altérer la profondeur. Que pensez-vous en tant qu’écrivain de la force et de la validité de l’humour?
J’utilise toutes les formes du comique, ce qui va du jeu de mot à l’humour noir, et ne rend pas la tâche facile à mes traducteurs. Dans Oh, boy! j’ai alterné très consciemment une tranche de soap, une tranche de sitcom, ou pour parler de façon plus littéraire, un temps de drame et un temps de comédie. Comme dit Beaumarchais : «Je me dépêche d’en rire pour n’avoir pas à en pleurer.» L’humour est une reprise de soi, une mise sous contrôle de ses émotions, un effort, une conquête, mais aussi une arme, une force, une armure. En tant qu’écrivain, cela me permet de rester pudique, elliptique, légère, même lorsque la charge émotive est lourde, même lorsque la critique sociale est incisive. En tant que mère de famille, l’humour est ma sauvegarde, d’une part pour supporter mes enfants, d’autre part pour leur dire ce que je pense sans (trop) les exaspérer.