Brian Selznick - Pagine in dissolvenza
Una chiacchierata di Giorgia Grilli con Brian Selznick, autore di La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, un romanzo dove le atmosfere del cinema si intrecciano ai meccanismi degli orologi. L’opera, edita in Italia da Mondadori, ha conseguito il maggior numero di segnalazioni dalla giuria di LiBeR in occasione del sondaggio per individuare i migliori libri pubblicati nel 2007.
Caro Brian, ti seguo da quando è uscito il tuo The Houdini Box (1991), un racconto illustrato che in Italia non è mai arrivato. Dopo quell’esordio sei diventato famoso e hai vinto molti premi soprattutto come illustratore. In Italia per esempio ti si può conoscere per le illustrazioni di Drilla (romanzo di Andrew Clemens, Fabbri, 1999). Ora hai scritto un libro che è un capolavoro di una complessità incredibile, dove i disegni, in sé bellissimi, non sono che parte di un’opera elaborata, che è insieme romanzo, libro illustrato, omaggio al cinema, e persino riproduzione del cinema, con le illustrazioni pensate quasi come fossero dei fermi immagine. Oltre alla bellezza dei suoi disegni e al modo in cui sono stati pensati (perché diano il senso di riprese cinematografiche), La straordinaria invenzione di Hugo Cabret colpisce perché alla lettura si rivela un libro dalla trama avvincente, che ricorda un po’ i feuilletons, i romanzi popolari ottocenteschi, con i suoi bambini orfani, le identità nascoste o perdute, le sparizioni improvvise, i misteri e le agnizioni. C’è dietro una indubbia conoscenza e competenza letteraria, insomma. In quali panni ti senti più tu, quelli di illustratore o quelli di autore?
Grazie per le belle parole su Hugo. Ho lavorato a questo libro per circa due anni e mezzo, cercando di combinare parole e immagini in una narrazione uniforme, perciò è un’emozione sapere che un lettore ritiene questo format molto efficace e in grado di raccontare la storia al meglio. Io mi ritengo prima di tutto un illustratore. Penso per immagini, dunque anche quando scrivo mi figuro le scene in testa e poi cerco le parole che potrebbero adeguatamente descriverle. La mia scrittura richiede un bel po’ di rielaborazione prima di suonare decente, proprio per il fatto che non mi sento uno scrittore “naturale”. Ma quando di un libro sono sia autore che illustratore scrivo il testo prima, e solo dopo cerco di trovare il modo giusto di illustrarlo. In quel caso ho proprio bisogno di un testo per poter costruire le mie illustrazioni e capire in che cosa consisterà la storia principale che sto raccontando. Mi diverto sia a illustrare che a scrivere, ma trovo anche entrambe le cose molto frustranti. Mentre lavoro mi capita spesso di sentirmi uno scrittore incapace e un artista disastroso. Per fortuna arrivano poi momenti in cui qualcosa all’improvviso funziona bene e questo mi fa sentire meglio e mi incoraggia ad andare avanti.
Un lettore potrebbe scorgere dietro la storia di Hugo Cabret l’ombra ispiratrice di Dickens (gli orfani bambini che se la cavano in un mondo di adulti minacciosi), di Victor Hugo o del Fantasma dell’Opera (gli emarginati che vivono esistenze insieme protette e recluse, nascosti dentro le pareti di enormi edifici) di E.T.A. Hoffmann (per tutto il tema degli automi) e, per quanto riguarda il cinema – a parte i riferimenti espliciti a Méliès – di Francois Truffaut. Tu come autore deliberatamente a chi ti sei ispirato per costruire la vicenda di Hugo, la sua ambientazione, la sua atmosfera?
Uno dei miei libri preferiti di sempre è Grandi Speranze, e amo molte altre opere di Dickens, dunque probabilmente lui era lì, dietro le quinte della mia testa. C’era sicuramente anche Il Fantasma dell’Opera nello sfondo, uno dei film che amo di più. Mentre lavoravo al libro molti film che avevo visto sono diventati riferimenti diretti per la mia storia.
I quattrocento colpi di Truffaut soprattutto è stato fondamentale. La straordinaria invenzione di Hugo Cabret è pieno di riferimenti a questo film, per esempio la scena in cui Hugo ruba il latte, o il fatto che abbia un amico che si chiama Antoine (come l’Antoine Doinel di Truffaut). La scena di Hugo in prigione con il collo del maglione tirato su fino agli occhi è basata su una scena del film. Ci sono anche riferimenti ad altri film francesi, come Sotto i tetti di Parigi e Il milione di René Clair. Mi sono ispirato anche a picture books come Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak e Fortunately di Remy Charlip.
Il tuo interesse per il cinema degli esordi, che sostiene la trama di Hugo Cabret, sembra legarsi a un tema che ti è caro fin dal tuo primo libro, quello della vocazione a creare meraviglia, della ricerca di ampliare l’orizzonte del possibile attraverso mezzi che possono andare dall’illusionismo (Houdini) al cinema scoperto come strumento perfetto per stupire e far sognare (Méliès). Da dove ti viene questa passione per la “magia” intesa come qualcosa di molto umano, come insieme di “effetti speciali”, come abilità nel costruire ingranaggi che possono far muovere orologi, giocattoli, macchine e marchingegni?
Penso che sia importante che le persone conservino il senso di meraviglia presente nell’infanzia. Tutto è possibile quando si è bambini. Il mondo è pieno di giganti e mostri e fate. Troppo spesso questo si perde crescendo, ma c’è bisogno di ricordare i misteri e le cose bellissime che un tempo ci erano così familiari. Mi piace la magia perché quando è fatta bene ci ricorda che è possibile credere nell’impossibile.
Parliamo un po’ delle illustrazioni, che sono tantissime, tutte doppie pagine, vere e proprie sequenze di un film in bianco e nero che quasi prendono il posto delle parti descrittive del testo o che, nei momenti topici, mostrano – e così raccontano meglio di mille parole – attraverso un certo sguardo o l’espressione di un volto in primo piano, i più profondi stati d’animo. Come hai deciso l’alternanza tra testo e immagini, quando lasciare spazio all’uno o alle altre? Quanto tempo ci hai messo a realizzare un simile lavoro? E il disegno a matita, che qui era funzionale a una storia sui primi film in bianco e nero, è sempre la tua tecnica preferita?
La straordinaria invenzione di Hugo Cabret era partito come romanzo “regolare”, di circa un centinaio di pagine con forse un disegno per capitolo. Ma dopo aver guardato così tanti film, ed essermi reso conto di quanto fossero importanti i film per la mia storia, volevo vedere se potevo riuscire ad incorporare nel libro il modo stesso di narrare del cinema. Ho sostituito parti del testo con elenchi di quel che avrei voluto disegnare, e quelle sono diventate le sequenze illustrate. Sapevo di volere tutte doppie pagine per questi disegni, senza i ballons né per i discorsi né per i pensieri come in un fumetto o in un graphic novel, quindi ogni volta che si dava una conversazione, o c’era un personaggio intento a pensare, o si aveva la descrizione di un profumo, doveva rimanere testo. Ma dovunque era prevista azione, o movimento, o una descrizione, potevo sostituirla con un disegno o una sequenza di disegni. Ho voluto che il libro fosse a matita perché sembrasse proprio come un insieme di fermi-immagine di un vecchio film in bianco e nero.
Per quanto riguarda la tua opera di illustratore quali sono i tuoi riferimenti, coloro che ritieni i tuoi maestri?
I miei più grandi ispiratori sono Maurice Sendak e Remy Charlip. Io credo che Nel paese dei mostri selvaggi sia il libro perfetto. L’intera struttura e il design del libro riflettono perfettamente quello che sta accadendo al protagonista, Max. Mi piace tantissimo il modo in cui le immagini crescono via via che l’avventura progredisce fino a quando le figure prendono l’intero testo e noi ci muoviamo tra i mostri selvaggi senza più alcuna parola, solo immagini. Il libro intitolato Fortunately, di Remy Charlip era uno dei miei preferiti quando ero bambino, e ogni volta che giri pagina trovi una nuova sorpresa circa la storia che seguirà nella pagina successiva. Mi piace l’anticipazione con cui ci si trova a girare le pagine.
È come a teatro, quando si alza il sipario… può succedere qualunque cosa.
Su quali altri libri sei cresciuto da bambino?
Oltre a Fortunately mi piaceva la serie degli Sgraffignoli, di Mary Norton, che narra di questa famiglia di personcine minuscole che vive sotto le assi del pavimento di una casa di bambini. Io pensavo che fosse una storia vera e ho costruito dei mobili per quegli omuncoli nella mia casa.
Hai incominciato lavorando in una libreria per bambini a Manhattan. Viene da pensare che possa trattarsi di una forma di apprendistato eccezionale per diventare poi uno scrittore e illustratore consapevole. Lo dico perché siamo sommersi da tanta improvvisazione nel campo dei libri per bambini. Vengono intesi, questi, spesso, come prodotti “semplici”, in cui anche l’ultimo degli sprovveduti si può cimentare, senza avere evidentemente mai preso in mano i classici, i libri che veramente funzionano, che sono piccole opere d’arte in molti sensi, che sanno davvero dire e lasciare qualcosa ai lettori. Ci parli di questa tua esperienza di libraio e di come ti ha eventualmente formato? Che cosa soprattutto hai imparato in una libreria che ho letto essere stata una delle più antiche, storiche, e competenti a New York nella vendita dei libri per bambini?
Essere in quel negozio (Eeyore’s Books for Children) mi ha veramente cambiato la vita. Di fatto, la mia amica Deborah de Furia, che ora vive a Roma, è la persona che mi ha detto di questa libreria a New York e mi ci ha portato. Tutto quello che so sui libri l’ho imparato lì. Ho letto centinaia di libri e ho incontrato lettori e ho dipinto le vetrine del negozio per le vacanze e per altri eventi. Le vetrine dovevano fare bella figura guardate dall’altro lato della strada tanto quanto la dovevano fare guardate da vicino, sia da fuori che da dentro il negozio, e ogni volta che mi chiedono di illustrare una copertina mi ricordo di quelle vetrine. Le copertine dei libri infatti devono funzionare sia viste da lontano in un negozio o in una biblioteca, che viste da vicino, quando si prende il libro in mano. Il mio capo era Steve Geck (fa ora l’editor a New York di libri per bambini) e lui era cresciuto in una libreria per bambini, quindi possedeva una conoscenza sterminata della letteratura per l’infanzia e mi ha aiutato a imparare così tanto. Lui e la sua fidanzata mi hanno persino aiutato a pubblicare il mio primo libro [The Houdini Box, ndt]
C’è qualcos’altro che puoi dirci circa quello che ci è voluto per comporre un libro come La straordinaria storia di Hugo Cabret in termini di studio, ricerca ed approfondimento? Ti faccio questa domanda sempre nel tentativo di render chiaro come un libro per ragazzi degno di questo nome non si possa concepire da un giorno all’altro, e semplicemente usando la ‘fantasia’, uno dei più subdoli fraintendimenti sotto la produzione di così tanta letteratura per l’infanzia…
In effetti ho fatto un bel po’ di ricerca per questo libro. Ho fatto tre viaggi a Parigi per studiare e fotografare la città. Ho letto molti libri su Méliès, ho visto i suoi film così come i film di molti altri registi francesi, e ho imparato tutto sugli automi e il funzionamento degli orologi. Ho incontrato esperti che mi hanno aiutato in ognuno di questi diversi campi, e tutta questa informazione è stata centrale nella costruzione del libro, anche se alla fine la parte più importante è stata Hugo stesso, un personaggio che mi sono inventato. Era la sua storia ciò che doveva importare di più, e sapevo che se i lettori non si appassionavano a Hugo non sarebbe interessata loro nemmeno tutta quella ricerca che avevo messo a punto. Mentre stavo lavorando al libro qualcuno mi ha detto, “Stai facendo un libro per bambini sui film francesi muti e sugli orologi? Sembra un’idea terribile.” La mia editor mi ha detto che se a Hugo importava di queste cose, allora anche al lettore sarebbe importato. Così alla fine ho sperato che il lettore avrebbe amato Hugo, e che poiché a Hugo piacevano cose come gli automi e i film muti, anche al lettore sarebbero piaciuti. Volevo che ogni cosa fosse interconnessa all’interno del libro. Come una macchina, un macchinario, con ogni parte dipendente da ogni altra.
E in effetti questa è l’idea finale de La straordinaria invenzione di Hugo Cabret. Che ogni libro, se costruito e messo a punto con tanta attenzione ad ogni aspetto e ad ogni dettaglio, è in se stesso un meraviglioso marchingegno, capace di creare meraviglia: proprio come un giocattolo, un orologio, uno spettacolo di magia o un film d’autore a loro modo lo sono.
La foto è stata scattata in occasione della consegna del premio di LiBeR a Brian Selznick, avvenuta a Campi Bisenzio il 3 marzo scorso in occasione dell’incontro “Editoria allo staccio