Un racconto sospeso tra la magia interiore dell’infanzia e il suo primo, timido affacciarsi sulla realtà dei grandi mutamenti del tempo, parole e immagini sapientemente immerse nel mood di quegli anni. Giovanna e i suoi re è un piccolo libro scelto dalla Presidenza della Repubblica come regalo ai ragazzi di Scampia in occasione delle celebrazioni per i sessant’anni dal referendum che sancì la fine della monarchia in Italia. La materia narrata, un breve testo, firmato dal tocco inconfondibile di Lia Levi e cullato dalla progettualità sperimentale e raffinata di Orecchio Acerbo, qui in campo a trecentosessanta gradi grazie alle affascinanti tavole di Simone Tonucci. E se albo illustrato può voler dire molte cose, Giovanna e i suoi re segna l’avanzare, attraverso i territori della letteratura per l’infanzia, di una creatività editoriale sempre più nuova e trasversale, in cui la fervente ricerca di forme e di linguaggi espressivi coincide con l’aprirsi di nuove e inaspettate possibilità di senso, tra rispetto ed esplorazione di contenuti sempre più densi e sfaccettati. L’esito finale di quest’interazione (oggetto, tra l’altro, di una mostra presentata al Salone del libro di Torino e ora ospite della Casa della Memoria e della Storia di Roma), interseca abilmente fantasia e concretezza storica, chiarezza e levità, senza mai dimenticare di rivolgersi a lettori alle prime prove e lasciando intuire, al di là dell’apparente semplicità, un lavoro complesso e meditato, un’articolata rete di scelte piccole e grandi, sia sul versante del racconto, sia su quello del tessuto visivo (immagine ed elaborazione grafica del testo). Curiosi dunque di addentrarci nel fuori campo del libro, abbiamo proposto a Lia Levi e Simone Tonucci un incontro a due voci, in parte cercando una serie risposte, in parte lasciando che il discorso fluisse da sé, si generasse dal confronto imprevedibile e in divenire tra la scrittrice e l’illustratore, insieme innanzi alla loro opera. Ipotesi in atto di uno scambio a posteriori, invenzione non contemporanea ma convergente.
Qual è stato il percorso che ti ha portato a Giovanna e i suoi re?
L. In questo caso, prima ancora dell’idea del libro c’era il desiderio di continuare ad approfondire lo scambio con Orecchio acerbo. L’esperienza de La portinaia Apollonia mi aveva lasciato la voglia di scrivere un altro racconto con loro. Poi, qualche mese prima dell’anniversario della Repubblica – sarebbe stato il sessantesimo – sono stati proprio loro a farsi avanti chiedendomi di scrivere un piccolo testo su quel momento storico, sul referendum e su quello che aveva comportato per il paese. Il libro, dunque, non è nato da sé, ma da una proposta degli editori. Mi piace scrivere su committenza e non credo sia una situazione sfavorevole per un autore, anzi può rappresentare uno stimolo, una sfida. Allora ci ho pensato un po'su, raccontare i fatti storici è possibile soltanto se riesci a trovare la chiave giusta. Così dall’idea di una bambina e del suo amore per i re è nata pian piano questa storia.
Quando e come avete deciso che avresti illustrato tu il libro?
T. E’ venuto tutto un passo dopo l’altro. Come diceva Lia, con La portinaia Apollonia avevamo cominciato insieme un percorso sulla memoria, con l’intento di far riflettere i bambini di oggi su situazioni del passato che riguardavano il paese. Quindi all’inizio c’era semplicemente la voglia di occuparci dell’argomento, poi come sempre accade con i nostri libri, che sono libri illustrati, la seconda fase è quella di ricerca delle immagini. Con Giovanna e i suoi re volevamo creare un oggetto che fosse possibile seguire nelle sue varie fasi di realizzazione, perché laddove tu chiedi l’intervento di un disegnatore, ti affidi alla sua interpretazione e poi con la grafica segui la sua traccia, cercando di creare l’unicum, cioè il libro. In questo caso, invece, gli intrecci tra immagine e testo erano talmente forti che ci è sembrato più giusto costruire il libro proprio a partire da questi legami. Così, dopo averci pensato, abbiamo deciso di fare un tentativo noi, anche se io non sono un illustratore di professione, faccio il grafico e mi occupo della casa editrice, però disegnare è una passione che ho da sempre e avevo già fatto due lavori per Orecchio acerbo, sia pure sotto pseudonimo. Con Fausta (Orecchio, N.d.R.) abbiamo pensato molto al taglio da dare alle illustrazioni; poi mentre lei impaginava, io disegnavo e questo probabilmente ha fatto sì che ognuno dei linguaggi del libro, diventasse un tutt’uno con gli altri.
Quale è stato il vostro approccio al testo e cosa ti proponevi con questo lavoro?
T. Il racconto si gioca tutto su una storia fantastica, sul rapporto di questa bambina con i suoi sogni, anche se poi indirettamente tocca tutta una serie di realtà e di aspetti storici. Mentre lavoravamo ci è sembrato funzionale tracciare due strade parallele, da un lato seguire da vicino la narrazione, dall’altro provare a essere didascalici rispetto al testo, aggiungendo alcuni spunti di riflessione storica. La nostra idea di base è stata comunque quella di non andare mai contro il racconto, ma di provare a integrare, in vari modi, degli accenni al periodo storico di cui si parla. Per esempio, nell’immagine in cui Giovanna spinge via lo stemma dalla bandiera, che è un po’ una sintesi di tutto il libro, ci sono almeno due piani di lettura, un racconto fantastico che ti avvicina all’argomento, e una serie di agganci alla Storia forniti dal tessuto visivo del libro. Ciò che per me rimane di questo lavoro è il fatto di aver lanciato più messaggi. Poi spetta al lettore trarre le sue conclusioni. Il libro è stato pensato come primo approccio a una fetta di Storia che probabilmente il bambino di quest’età ha sentito solo vagamente raccontare. Va benissimo come storia letta prima di andare a dormire, ma va bene anche in classe, cioè lascia la possibilità di approfondire alcune cose oppure no.
Un aspetto molto significativo di questo lavoro è costituito dall’integrazione grafica del testo.
Prima di essere editori, siamo grafici e questo è un aspetto che sentiamo molto nostro, che riteniamo avere un peso e un’importanza fondamentale all’interno di un libro. Non si tratta di un vezzo, per noi non è un abbellimento della pagina: se giochi con le parole cerchi di farlo con le parole giuste. E se ciò avviene, è perché c’è un motivo preciso. La grafica del testo diventa così un terzo elemento di narrazione che funge un po’ da collante tra i primi due che sono quelli fondamentali.
Come autrice, cosa hai provato davanti al testo già illustrato, completo?
L. Quando scrivo non posso ancora sapere quali immagini sceglieranno per illustrare il testo e, anche se dentro di me alcune le vedo come possibili candidate - con La portinaia Apollonia è accaduto così - poi però sono altri a scegliere. A volte le illustrazioni che vengono fuori non sono quelle che ti aspettavi, quelle su cui fantasticavi, ma in genere è una sorpresa che all’autore piace: è come una storia scritta un pezzetto per uno, due forze pari che si integrano. Altre volte, invece, come è avvenuto con Giovanna e i suoi re, i disegni hanno completato l’immaginario che stava dietro la scrittura: per esempio, quando racconto il momento in cui il re è scappato e i bambini sono rimasti sotto le bombe, pensavo che avrebbero dato più spazio all’immagine in cui Giovanna si protegge la testa con le mani. A mio parere quella era una delle suggestioni più forti. Loro invece hanno deciso di mettere le bombe a tutta pagina, bombe che poi si trasformano in caramelle, quelle che gli americani distribuivano ai bambini. Io non avevo utilizzato l’immagine delle caramelle, invece loro, da soli, con un’intuizione, sono stati capaci di esprimere quello che io avevo pensato ma non avevo scritto… Il risultato finale è qualcosa che ha colpito tutti, è la pagina che mi è piaciuta di più.
T. Questo libro è venuto fuori proprio perché il racconto consentiva di restargli vicino, ma nello stesso tempo era aperto a varie possibili deviazioni. Con l’immagine delle bombe ci piaceva l’idea di recuperare un concetto su cui spesso i bambini fanno confusione: ricordo che quando si studiava storia da piccoli non era semplice capire come le bombe provenissero dagli americani che però erano gli stessi che ci stavano salvando e che ci davano le caramelle. Anche perché dà sempre un po’ di fastidio dire che noi prima eravamo dalla parte di quelli che non erano buoni.
L. Il guazzabuglio seguito all’8 Settembre è difficilissimo da spiegare.
T. Proprio così, con questa transizione dalle bombe alle caramelle e dal bianco e nero al colore volevamo trasmettere il mutare dello stato d’animo dei bambini, questo passaggio dal terrore alla gioia - su cui peraltro il testo giocava molto - utilizzando le caramelle come esempio concreto dell’aiuto di chi era venuto per darci una mano.
Parlavi della grafica come collante tra i due linguaggi, la scrittura e le immagini.
T. Sì, in questo caso specifico le scelte erano mirate a recuperare alcune tipologie grafiche di quei tempi. Prima di cominciare il lavoro abbiamo consultato materiali degli anni ’40, ispirandoci a un grande illustratore di quegli anni, Antonio Rubino, e abbiamo cercato di entrare in quel gusto, in quell’atmosfera, sia attraverso la dimensione tipografica, sia attraverso le immagini, utilizzando tinte piatte e illustrazioni abbastanza semplici.
La tua ricerca, Lia, sembra seguire, senza soluzione di continuità tra libri per adulti e per ragazzi, una linea di confine tra Storia e memoria individuale, secondo una prospettiva che pone al centro della narrazione il vissuto infantile. Come si colloca Giovanna e i suoi re in questo percorso?
L. Una bambina e basta è un romanzo autobiografico che si accosta alla Storia attraverso il filtro di un io bambina per esprimere una particolare visione del mondo. Non lo avevo scritto pensando ai ragazzi, ma col tempo è diventato un libro per le scuole. Si può dire che è stato il punto di partenza da cui poi fare storie che fossero anche altro. E anche se il periodo che ho narrato in quel libro mi appartiene profondamente, se è qualcosa cui sento di poter attingere come a una fonte inestinguibile, adesso non m’identifico più nel personaggio di Giovanna, o nel bambino de La portinaia Apollonia. Con Giovanna e i suoi re, ho voluto invece raccontare queste storie mettendomi a livello di un bambino più piccolo, per cercare di rendergli commestibile, sbriciolato in piccoli frammenti, quello che desidero trasmettergli. Quindi non è più Giovanna a parlare per me, ma sono io che cerco di parlare ai bambini piccoli attraverso Giovanna.
Infatti, da un lato c’è come un senso di contiguità, una radice comune (è molto forte, per esempio, il legame con Se va via il re, non a caso da poco riedito da e/o), dall’altro si avverte che la materia autobiografica, se pur presente, è molto più distante, velata.
L. Quando hai a che fare con i bambini piccoli e con la Storia il pericolo più grande è quello di scrivere qualcosa di didascalico, di esemplare. Inoltre, se ti rivolgi a lettori di quell’età, non puoi assolutamente fare nulla di astratto, quindi devi mettere in gioco piccole storie di vita, problemi piccolini, perché altrimenti il rapporto con la Storia è impossibile. Nello stesso tempo è necessario concentrare al massimo il discorso, tradurre in soldini e non in soldoni, fino ad arrivare a quello che i bambini possono comprendere. E tutto questo, naturalmente, lo fai attingendo anche a spunti di vita vissuta – perché una delle materie fondamentali è quella - a piccole scene d’infanzia che emergono qua e là rielaborate, come l’incontro col farmacista, o il riferimento alla minestra di pasta e patate.
Sia nei libri per adulti che in quelli per bambini, l’attenzione al quotidiano è per te una via privilegiata per accedere alla Storia e al vissuto di personaggi che altrimenti resterebbero troppo distanti da chi legge, e per entrare in contatto col “presente del passato”. Secondo questa angolatura, un elemento che ritorna in questo libro e in Se va via il re è il cibo.
L. Se parliamo di narrativa, l’unico modo per incontrare la Storia è farlo attraverso il quotidiano. In Se va via il re il cibo è molto presente, perché racconto della fame. Durante la guerra e nel dopoguerra la fame era un argomento fondamentale, non si parlava d’altro. Così, quando scrivo della guerra, il mio non è l’interesse dell’autore per il cibo e per quello che rappresenta, ma è un soffermarmi sulla sua assenza, cioè sulla fame. Anche la storia della minestra di pasta e patate, che apre Giovanna e i suoi re è vera. Non mi piaceva già dall’odore, ma a casa mia mi obbligavano a mangiarla e non mi permettevano di alzarmi da tavola se non avevo finito.
Quindi i riferimenti al cibo hanno una doppia valenza, da un lato evocano la guerra, con il suo quotidiano, le sue ristrettezze, dall’altro consentono anche una rappresentazione della vita privata, familiare, mettendo a fuoco un dei luoghi clou dell’interazione genitori figli.
L. Sì, perché in periodo di guerra non mangiare era una cosa più grave.
Come quando oggi si dice, mangia che tanti bambini non hanno da mangiare.
L. Questo fa arrabbiare i bambini perché è strumentale. Allora era diverso. C’era davvero solo quello. E allora come fai a non mangiarlo? Hai fame e non lo mangi? Però era cattivo. Non so come sarebbe adesso. La minestra di pasta e patate non l’ho più assaggiata.
A volte le illustrazioni estrapolano graficamente alcune parole presenti nel testo o facenti parte dell’aura semantica del discorso. Nel caso di Giovanna e i suoi re ci sono parole come SÌ e NO o PRESIDENTE che, in un certo senso, prorompono dal testo, quasi a chiedere di diventare immagini. Ma questo non vale per PASTA e PATATE che tu hai scelto di evidenziare.
T. Si può dire che le immagini del libro sono a metà tra l’illustrazione e la grafica, quindi a volte accade di prendere una parola e di ritrarla come fosse un soggetto. SÌ e NO rappresentano il tema del voto che è uno dei noccioli del racconto, quindi diventano protagonisti del tessuto visivo e si trasformano in immagini, in personaggi. In questo caso, invece, poiché avevamo deciso fin dall’inizio che Giovanna fosse presente quasi in ogni pagina, come spettatore e insieme come protagonista di quanto si racconta, anziché proporre un’immagine del piatto con la pasta e le patate, c’è sembrato più forte disegnare la bambina che sposta fisicamente le due parole, trasformate graficamente in illustrazioni. Anche perchépoi tutto questo torna nella pagina in cui c’è la grande scritta PRESIDENTE e Giovanna appoggiandosi fa cadere la parola RE. Il tutto serve anche a creare un ritmo un po’ più mosso, un linguaggio sconfina nell’altro, il disegno diventa grafica e viceversa.
L’altra tavola in cui ritorna la minestra di pasta e patate mi ha colpito molto. Trovo che abbia un che di violento che è molto efficace, non soltanto per le proporzioni tra le figure, ma anche perché tu hai scelto di disegnare il riflesso della corona dentro il cucchiaio, cosa che dà il senso di un’imposizione molto forte, non solo da parte dei genitori, ma anche da parte della realtà esterna.
T. Il cucchiaio diventa qualcosa cui non si può dire di no, un ordine vero e proprio e non più una semplice imposizione, come quella dei genitori. (Sebbene anche il forzare un bambino a mangiare sia una forma di violenza). Giovanna è molto piccola, tanto che sta addirittura all’interno del piatto e sopra di lei incombe questo gigante mestolo. Costruita in questo modo, l’illustrazione diventa un’immagine esasperata e surreale. L’intento è quello di rappresentare il concetto e di non fermarsi all’immagine che viene raccontata. Credo, in ogni caso, che un’immagine debba funzionare a colpo d’occhio, poi uno può scendere nei particolari e trovarci cose che sono un di più, che aggiungono un significato. Anche perché ciascuno l’associa a un proprio immaginario.
L. Per esempio, il vostro modo di raffigurare Giovanna mi ha fatto venire in mente la figurina rossa di Schindler’s List. Forse sembra un po’ blasfemo dirlo, ma ho pensato alla bambina col suo cappottino rosso, unica macchia di colore in un film tutto in bianco e nero, come un filo che riannoda l’intero racconto. Magari non c’è nessun legame, eppure io c’ho pensato, perché alcune immagini sono così, ti restano dentro.
La passione per i re che tu descrivi e che nel caso di Giovanna è tutta giocata su un sottile equilibrio tra mondo onirico e mondo reale, non è, ovviamente, appannaggio esclusivo dei bambini o delle fiabe. Il fascino dei re ha sempre agito anche sugli adulti, consentendo, tra le altre cose, il sopravvivere per lungo tempo della monarchia. Nel finale del libro, però, i re abbandonano persino i sogni di Giovanna.
L. Mia nonna ritagliava dai giornali le foto dei reali, principi principesse e principini, e le conservava in un album. In famiglia abbiamo sempre creduto che avesse votato monarchia, anche se non ne abbiamo la certezza. E molte altre nonne probabilmente hanno fatto lo stesso.
Nel libro l’immaginario della protagonista a un certo punto si estingue perché non è più alimentato. Giovanna è cresciuta e la scomparsa dei re dal suo mondo onirico è un piccolo pegno da pagare alla realtà. Adesso in sogno le appaiono i presidenti, ma il tutto è sicuramente meno magico.
I re e le regine dei sogni di Giovanna assomigliano un po’ a quelli delle carte, vero?
T. Sì, su questi personaggi abbiamo deciso di lavorare in modo diverso da tutti gli altri, proprio perché rappresentano il suo mondo immaginario. In questo caso la nostra fonte di ispirazione sono state alcune immagini del teatro futurista. Consideriamo poi che gli stessi personaggi ritornano non come re e regina, ma come presidenti, diversi negli abiti, ma identici, nella stessa posizione, così li ritroviamo nella seconda e nella penultima pagina, a sottolineare che il percorso di Giovanna è arrivato in fondo.
In Se va via il re la metafora della finestra era espressione della libertà seguita alla fine del fascismo e all’oscurità prodotta dal regime. Qui invece, nella pagina in cui il testo presenta i re italiani, le immagini vanno avanti a prefigurare il tradimento e la finestra diventa metafora di una menzogna…
T. In questo caso ho scelto di raffigurare il classico affaccio alla finestra del potente che saluta il popolo, che però non si vede, giocando in modo scherzoso sulla statura del re che era un uomo non molto alto e, si dice, non tanto simpatico. E’ un’immagine molto statica di un saluto, mentre si vedono alle spalle le ombre delle bambine, le principesse che si preparano a partire, e le valigie con le etichette delle varie destinazioni fanno capire che la fuga è già pronta.
Nella tavola che allude all’occupazione tedesca e ai fatti successivi alla fuga del re, l’immagine così ravvicinata degli stivali rimanda ai manifesti di propaganda sulla guerra del tempo?
T. Sì, è un’immagine che credo appartenga un po’ a tutti, lo stivale che irrompe nei vecchi manifesti di grafica del tempo. Inoltre, concentrarsi su un particolare può rendere l’immagine più forte che non raccontare tutti i dettagli, come la divisa, l’elmetto, ecc. E siccome il testo dice che il re scappa, l’idea di fondo è quella che c’è qualcuno che sta entrando con violenza in un paese, tanto da spingere il re alla fuga. Quindi mi sembrava più d’impatto focalizzare l’attenzione soltanto sui piedi che entrano nel libro con questo incedere molto militare, fino a occupare lo spazio della doppia pagina.
Una cosa che colpisce visivamente nella composizione della pagine è la presenza di grandi spazi vuoti, il costante comparire del fondo unico della carta peraltro molto raffinata di cui si compone il libro.
T. E’ in parte una scelta stilistica, quella di voler lasciare uno spazio al gioco e all’interazione con i testi; per altri versi, all’interno dei vuoti, le ombre possono raccontare qualcos’altro ancora. E poi nell’immaginario, l’immagine ha sempre bisogno di un suo spazio.
L’immagine degli ingranaggi esemplifica in qualche modo il meccanismo della democrazia, la differenza tra partecipazione e delega. E se da un lato i bambini, dicevamo prima, devono subire una serie di imposizioni dagli adulti, se non possono partecipare direttamente al voto, cosa che il testo sottolinea, dall’altro possono in qualche prendere parte al tutto.
L. E’ un’immagine molto bella, attraverso le rotelline Giovanna comincia in qualche modo a partecipare, le balena l’idea che può scegliere. Con i bambini piccoli non puoi appigliarti alla ragione, devi agganciarti a un sentimento. Se dici, sai puoi scegliere, e parli solo alla mente, le cose non funzionano. Se invece fai notare che la scelta comporta che ci si possa affidare a qualcuno che conosciamo e che stimiamo, allora è diverso.
In questo senso SÌ e NO, ritornano nel finale, ma in modo meno secco e più sfumato.
L. Sì, attraverso l’uomo buono, l’uomo comune. Questa era la speranza, poi di presidenti ce ne sono stati di buoni, ma anche di pessimi. Un altro aspetto che ho messo in evidenza è anche il senso di alternanza al potere che mancava alla monarchia, quando i genitori spiegano a Giovanna che se un re non ti piace, come è avvenuto con Vittorio Emanuele, lo puoi cambiare.
Nella tavola del farmacista trovo ci sia un senso di distanza tra adulti e bambini, un retro del bancone cui non è possibile accedere. Tutto questo mi sembra molto in sintonia con il tuo modo di concepire la relazione tra i due mondi, e col desiderio bambino di smascherare bugie e incoerenze degli adulti. Infatti all’inizio Giovanna è diffidente. La caramella diventa così un simbolo della fiducia dei bambini nei confronti degli adulti. E, pensando alle bombe-caramelle di cui si parlava prima, si crea un intenso gioco di rimandi attraverso il testo.
L. Sì, è così. Ciascuno nota qualcosa di diverso, qualcosa in più. Quella del farmacista è un’immagine della mia infanzia, ce n’era uno che ci regalava le caramelle (anche se io non pensavo dovesse diventare presidente), si chiamavano lacrime d’amore, erano rotonde, piccoline. Adesso non le regalano più, perché nessun bambino ne è privo. Allora era tutto più raro e quindi tutto aveva più valore.
Nella pagina in cui si parla del voto e di come alcuni uomini l’avessero impedito c’è un’ombra molto particolare.
T. Sì, a volte l’ombra si separa dal soggetto cui è associata per offrire altri significati. Qui è la visione prospettica di un uomo. Guardando l’ombra che questo proietta ti accorgi che sta facendo un saluto di un certo tipo, che ha un cappello di un certo tipo. Nel testo non è detto esplicitamente chi sono i prepotenti che hanno impedito il voto, così in questo modo si danno degli spunti: uno stivale nero, una divisa simile ma non uguale a quella che si era vista all’inizio e, come dicevamo, l’ombra. Sono tutti elementi che riportano all’immaginario tipico del ventennio, e che danno modo a chi ne ha voglia di approfondire l’argomento.
Mentre quando il testo parla della prima volta del voto delle donne, l’ombra è usata in modo ancora diverso. E’ come se quella della donna che esce da casa si tramutasse in quella dell’uomo che resta col bambino. E questo è molto suggestivo.
T. Il gioco delle ombre a volte è solo d’accompagnamento visivo, altre rimanda a un personaggio che non c’è, è un pretesto per dire altro, come un sottotesto meno appariscente che segue un percorso parallelo a quello delle immagini vere e proprie.
La pagina del voto alle donne è molto importante perché fa riflettere i bambini su un diritto acquisito, qualcosa che oggi può apparire scontato e che invece ha richiesto anni e anni di lotte e di sofferenze.
L. Tenevo molto a sottolineare il momento del voto alle donne, portare l’attenzione sul loro ingresso in politica, dico sempre ai bambini, pensate, per molto tempo le donne non hanno potuto votare. Nel ’46, prima del referendum, proprio dalla parte progressista, repubblicana qualcuno temeva che il voto femminile avrebbe favorito la monarchia. Ma se consideriamo i risultati - quest’anno festeggiamo il sessantesimo anniversario della nostra Repubblica - e il fatto che allora le donne rappresentavano più della metà dell’elettorato, le cose devono essere andate diversamente.
Qui, nell’illustrazione c’è il biberon lasciato sul tavolo, l’uomo che resta col bambino e le donne che alzano le mani per festeggiare. Però, guarda caso, l’immagine è vista attraverso la grata di una finestra, cosa che dà un segno come di prigione. In queste ultime elezioni le donne non sono state trattate molto bene, così nel finale del racconto ho voluto riferirmi all’oggi e quando nei sogni di Giovanna si materializza il presidente coi ministri, ho messo anche le ministre. Una nostra comune amica avrebbe addirittura voluto che io mettessi un presidente donna. Ma non era realistico, non era di quei tempi e i bambini ne sarebbero stati disturbati. Bisogna far capire le cose piano piano.
Presentando quest’argomento hai inserito il verso di una piccola canzone che esprime la gioia delle donne. In questo libro, e in molti altri, da parte tua c’è una costante una ricerca di leggerezza, un desiderio di raccontare con tono lieve anche gli eventi più cupi, ormai una connotazione distintiva del tuo stile.
L. E’ qualcosa che fa parte di me, anche se qui cercavo semplicemente una filastrocca che fosse in rima. A differenza de La portinaia Apollonia, in cui sì, il tono è lieve ma la storia è cupa e gli avvenimenti drammatici, in Giovanna e i suoi re domina l’allegria, del voto, delle donne che possono finalmente votare, della libertà. Quello che voglio trasmettere è che nel dopoguerra c’è stata una tale gioia, una tale vitalità, una tale esplosione di sogni e di voglia di fare…E che erano autentiche. Gli interessi non erano così presenti, la politica c’era, ma era effervescente.
Chi non l’ha vissuto penso possa capirlo con difficoltà. In Se va via il re tu racconti che "fuori era come se tutto fosse un’unica orchestrina che ti tirava dietro come il pifferaio di Hamelin".
L. Infatti lo dico sempre ai ragazzi quando mi chiedono com’era. Era tutto un’allegria, era la fine dell’incubo.
Sempre in Se va via il re descrivendo il formarsi di due opposti schieramenti all’interno di una classe, hai creato un canale privilegiato di riflessione sul clima che precedette le votazioni e sulla frattura che divideva l’Italia pre e post referendaria. Dal tuo racconto emerge una sorta di richiamo al buon senso e come una ricerca dei reali punti di contiguità tra le persone. È qualcosa che hai voluto esprimere anche attraverso il percorso di Giovanna?
L. A Giovanna piaceva tanto il mondo dei re e delle regine ed essendo piccola pensava che bisognasse tenerselo per forza, per lo stesso motivo per cui credeva che, se fosse arrivato davvero il re, lei avrebbe dovuto mangiare la minestra. Giovanna obbediva agli ordini, come a una specie di divinità. Poi, pian piano, i suoi genitori le spiegano e lei sta a guardare. Quindi in lei non c’è quella dialettica interiore di cui tu parlavi, né può esserci un desiderio di conciliazione. E’ troppo piccola per tutto questo. L’illuminazione è rappresentata dall’uomo buono, e in ciò la sua sensazione è simbolica, perché se le cose stanno così, ne conosce uno anche lei. Allora capisce che può scegliere e che una persona che stima, magari in un giorno lontano, può diventare un capo. E questo è un concetto importante.
Si può dire che attraverso le opinioni incerte e di “seconda mano” dei bambini, sei voluta andare oltre la faziosità e le contrapposizioni a volte indotte e non maturate autonomamente degli adulti? Penso all’ultima campagna elettorale e al suo tentativo estremo di mettere contro le persone, spesso utilizzando motivazioni false e manipolatrici, strumentali al potere.
L. Allora avevo quattordici anni, quindi non ero tanto piccola da essere una testimone inconsapevole, né tanto grande da essere pienamente partecipe. Ero una spettatrice capace di guardare alla cose con quella percezione vivida degli adolescenti. Così quei giorni li ho scolpiti dentro quasi minuto per minuto. Anche in quell’occasione la campagna elettorale fu accesa intollerante, integralista, fondata più sull’invettiva che sul dialogo. Alcune delle motivazioni erano reali, giustamente appassionate, l’intreccio era complesso, si usciva dalla guerra e da tutto quello che aveva comportato, c’era stata la Resistenza. Altre non lo erano. Tanto è vero che c’è stata la stessa accusa di brogli elettorali e che ne è nata una controversia di giorni e giorni. In più a quei tempi la paura del comunismo era molto più reale di oggi. Perché se entravamo nell’orbita sovietica eravamo perduti. Ora riciclano spauracchi di sessant’anni fa e questo è ridicolo.
Tina Anselmi nel suo Zia, cos’è la Resistenza? dice che la guerra con il suo negativo assoluto faceva da catalizzatore delle esistenze, per cui le scelte erano più possibili, mentre ora tutto questo è più difficile. Penso ai ragazzi e alla difficoltà di trovare direzioni, sensi…
L. Allora sembrava più semplice distinguere dove era il bene e dove il male, per cui le scelte morali erano più chiare, più facili. Calvino diceva che da questa parte del ponte c’era tutto il male, dall’altra tutto il bene. E’ molto bello e molto simbolico, perché non dice che oltre il ponte c’era il bene assoluto, ma il bene che avevamo dentro di noi. Altrimenti si torna a quelle divisioni, a quei valori estremi che non hanno senso.
Le battute finali del testo e l’ultima tavola sono dedicate ai cappelli e mi fanno pensare a Ladri di biciclette.
T. E’ il momento in cui Giovanna abbandona o riesce a sostituire le figure reali dei presidenti ai sogni che ha fatto pochi giorni prima. L’intento che sta dietro quest’immagine è quello di dar vita a un’esplosione di colori finale..
L. La scelta di mettere il cappello al posto della corona non è casuale. Nelle fotografie e nei film sul dopoguerra tutti portano il cappello, indipendentemente dalla classe sociale. E’un’immagine che segna il farsi avanti dell’uomo comune, dell’uomo della strada. E questo adombra un passaggio essenziale della nostra storia, davvero un grandissimo cambiamento.
(Una versione abbreviata dell’intervista è apparsa su LiBeR 72)