Durante gli anni della seconda guerra mondiale ha partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano. Come l’esperienza diretta degli avvenimenti è entrata nei libri per ragazzi che ha scritto?
Io ho scritto il mio primo libro, I ragazzi della banda senza nome, nel 1953 (anche se la sua pubblicazione porta la data del 1972; quel libro infatti è rimasto per venti anni nel “cassetto”). Erano dunque passati solo otto-dieci anni dal tempo della Resistenza la quale, nel libro, è presente come sfondo, soprattutto nella sua terza parte. Vi si parla infatti della costituzione, nel settembre del 1944, della zona libera dell’Ossola, e della sua riconquista operata dalle forze nazifasciste. Tuttavia già in questo libro entrano elementi di esperienza diretta; alla fine dell’estate di quell’anno io, allora diciassettenne, ho assistito, sulla sponda orientale del Lago Maggiore, alla requisizione delle barche operata da reparti fascisti che si stavano preparando ad attraversare il lago per affrontare le forze partigiane a Cannobbio; un episodio, questo, che è riportato nella parte finale del racconto, anche se, per esigenze narrative, i testimoni diventano qui, appunto, i ragazzi quattordicenni della banda senza nome. La mia esperienza diretta della guerra partigiana nella zona del Cusio e dell’Ossola, nei primi mesi del 1945 entra invece pienamente nel mio secondo libro, scritto negli anni sessanta ma pubblicato solo nel 1978, Che importa se ci chiaman banditi. Il libro racconta vicende tutte vissute direttamente, anche se io scelsi allora la forma di una narrazione in terza persona, quasi come se si trattasse di un romanzo (con riferimento a tale libro io ho spesso usato l’espressione un po’ paradossale di “diario in terza persona”). L’esperienza della Resistenza è entrata in una forma ancora diversa in un mio terzo libro, Sempione ’45, pubblicato nel 1991, in cui si parla del salvataggio della galleria del Sempione che i tedeschi in ritirata si apprestavano a far saltare. Un gruppo di partigiani riuscì a impadronirsi, una notte, delle sessanta tonnellate di tritolo che i tedeschi avevano già accumulato davanti al suo ingresso. Anche questo libro ha la forma di un romanzo, il quale però ha come suo punto focale un evento realmente accaduto, di cui io non avevo fatto diretta esperienza ma che avevo potuto ricostruire nei suoi tratti essenziali parlando con i protagonisti. E sempre parlando con i protagonisti avevo potuto conoscere un altro evento reale, lo scontro avvenuto tra partigiani e fascisti nella Valle Strona, sopra Omegna, nel gennaio del 1945, per il recupero di un “lancio” di armi, un evento questo che costituisce anche qui il nucleo centrale di un altro mio libro, Nel rifugio segreto (Giunti, 1998).
Le risulta che, come scrive in Ragazzi di una banda senza nome e in Nel rifugio segreto, ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista?
Che ragazzi e ragazze, singolarmente, o in piccoli gruppi (non, forse, come vere e proprie bande) fossero non di rado accanto a noi, nei paesi di campagna o di montagna in cui ci capitava di sostare talvolta per parecchi giorni, posso testimoniarlo. Li muoveva, certo, la curiosità, per il nostro assetto, per le nostre armi disparate, per i nostri discorsi, e anche per il fatto che non avevamo poi molti più anni di loro. E li muoveva anche il desiderio di rendersi utili: procurandoci degli oggetti o dei materiali (io, come “giornalista” della mia Brigata, giravo con la mia macchina da scrivere portatile, ma avevo bisogno di una robusta scatola di latta per tenerci i fogli bianchi e la carta carbone, e fu appunto un ragazzo a procurarmene una adatta), confezionandoci camicie con la tela del paracadute dei lanci (qui erano le ragazze che collaboravano con le loro sorelle più grandi), raccogliendo notizie utili, e talvolta operando in situazioni in cui sarebbe stato più difficile per gli adulti intervenire (per esempio fu una bambina che, un giorno in cui ero nascosto in una stalla nel centro di un paese invaso da reparti tedeschi e fascisti in rastrellamento, mi portò il cibo confezionato per me dai suoi genitori). Era, questa, una delle forme in cui si manifestava l’atteggiamento di protezione e di aiuto che le popolazioni delle nostre valli avevano nei confronti dei partigiani, molti dei quali erano del resto nativi di quei paesi. Qualcuno di quei ragazzi cercò anche di seguirci: uno di essi, che aveva solo quattordici anni, volle unirsi a noi; prese il nome di battaglia di “Topolino”, e cadde nell’aprile del ’45 mentre, nel corso di un attacco da parte di tedeschi e fascisti, cercava di rendersi utile a un nostro compagno indicandogli, in piedi dietro un cespuglio, il punto da cui sparava una mitragliatrice. È questo un episodio di cui parlo nel libro Ci chiamavano banditi (Giunti, 1995).
Lei pensa che le esperienze vissute e trasmesse tramite i suoi libri possano rappresentare attualmente un insegnamento valido e fondante per i giovani che vivono una realtà così diversa?
A me capita molto spesso di incontrare ragazzi delle scuole medie che hanno letto qualche mio libro in cui si parla della Resistenza, e di conversare con loro. E devo dire che ho sempre riscontrato un grandissimo interesse per le tematiche toccate, che sono poi quelle della violenza, della guerra, della paura, della morte, ma anche della solidarietà, del coraggio, della libertà, della pace, del rispetto per la vita. Certo, la realtà di oggi è molto diversa, non c’è la guerra in Italia, né il fascismo, né l’occupazione straniera. Ma ci sono stati e ci sono altri problemi che richiedono una presa di posizione personale; pensiamo al terrorismo di alcuni anni fa, o alla mafia, o alle guerre che si svolgono in altre parti del mondo, o a certe catastrofi naturali che sollecitano interventi di solidarietà. E c’è inoltre, per tutti, il problema di compiere bene il proprio dovere, quotidianamente, nei luoghi e nelle situazioni in cui ci si trova. Questo, ogni volta, io cerco di fare presente ai ragazzi, e aggiungo anche che potrebbero anch’essi fare tesoro di un’eredità che la Resistenza ha lasciato in molti di coloro che l’hanno vissuta, o conosciuta da vicino. Si tratta di un’eredità “morale” che può essere riassunta in tre punti: conservare la capacità di indignarsi di fronte a ogni stortura, o ingiustizia che si incontra (proprio come al tempo del fascismo e dell’occupazione tedesca); conservare e sviluppare una capacità di iniziativa (la capacità cioè di agire e di chiamare altri a partecipare, senza aspettare che qualcuno ci solleciti, proprio come accadde a molti che decisero di propria volontà di prendere parte alla Resistenza); infine, la capacità di resistere, senza cedere mai, anche quando tutto sembra andare alla rovescia, per preparare con tenacia e fiducia, le condizioni per una riscossa (non per nulla i fratelli Rosselli, del Movimento Giustizia e Libertà, diedero al loro giornale clandestino, nel tempo del fascismo trionfante, il titolo Non mollare). In questo senso, per niente retorico, si può interpretare l’invito con cui Piero Calamandrei chiudeva la sua epigrafe per il maresciallo Kesserling: “Ora e sempre Resistenza”.
Nelle sue opere lei privilegia l’aspetto memorialistico rispetto a quello romanzesco? Opere come Il sentiero dei nidi di ragno o Ultimo viene il corvo di Calvino hanno esercitato una qualche influenza sulla sua produzione letteraria?
Certo quelle due opere di Calvino, che sono del ’47 e del ’49, hanno avuto influenza su di me, come anche il libro di Molnar, I ragazzi della via Paal, o i personaggi di Mark Twain, Tom Sawyer e Huckelberry Finn. Se ne può sentire l’influenza nei primi libri, in cui ho privilegiato l’aspetto romanzesco, anche quando facevano riferimento alla mia esperienza personale e narravano di fatti realmente accaduti. Poi, però, è accaduta una cosa singolare: visitando le classi in cui tali libri erano stati letti, io mi sentivo regolarmente chiedere dai ragazzi “che cosa c’è di vero, e che cosa di inventato” in libri in cui, come Ci chiamavano banditi o L’inverno della grande neve (Mursia, 2004) le vicende presentate erano tutte realmente accadute (il secondo riguarda una mia esperienza di lavoro all’estero, in miniera e in fabbrica, nell’immediato dopoguerra). E così a un certo momento ho ritenuto opportuno procedere a una riscrittura di questi due libri, portandoli alla prima persona e dando a ciascuno di essi il carattere di una “memoria”. E il risultato (constatato in successivi incontri dello stesso tipo) è stato quello di una maggiore incisività, di una più forte presa. E la domanda che prima mi veniva fatta con regolarità non mi è più stata riproposta.
Da studioso di psicologia ritiene che la memoria di tragici eventi trascorsi possa in qualche modo contribuire a evitare che abbiano a ripetersi gli errori del passato?
Penso proprio di sì, a condizione che questi eventi vengano conosciuti, e non soltanto in modo generico, come può accadere nelle pagine di un libro di testo, bensì nel modo vivo e dettagliato con cui ci vengono proposti da certi documenti, o testimonianze, come i diari (pensiamo, ad esempio, a quello di Anna Frank), le memorie (per esempio, il libro di Lussu, Un anno sull’altipiano, o quello di Carlo Levi, Cristo si è femato ad Eboli, o il libro di Primo Levi, Se questo è un uomo), le lettere, le fotografie accompagnate da un commento che permetta di svilupparne tutti i significati, i documentari cinematografici, o anche certi grandi film (pensiamo, per esempio, a Niente di nuovo sul fronte occidentale, a Roma città aperta o a Paisà, o anche a un film recente come Il pianista).
Sono proprio queste situazioni specifiche che possono coinvolgere i ragazzi e anche gli adulti, e indurli a riflettere, a discuterne, e a sentire il bisogno di conoscere meglio il quadro generale in cui si inseriscono. Queste esperienze, che sono nel contempo cognitive ed emotive, possono determinare sia il rifiuto della violenza, dell’ingiustizia, della crudeltà insensata, del razzismo, dell’intolleranza ideologica, sia una sorta di “vaccinazione”, ovvero una capacità di rigetto quando gli stessi pericoli si ripresentassero. Come psicologo sono convinto che non solo la psicologia, ma anche la storia, e la letteratura, rappresentino delle vie maestre per conoscere l’uomo, per riflettere sulle decisioni che prende e sui valori (o disvalori) ai quali esse di volta in volta si ispirano.
(da LiBeR 66)