Secondo Roberto Denti, che ci racconta in quest’intervista la sua esperienza “in prima linea”, uno dei motivi principali che dette origine alla Resistenza fu la fame. Quella di allora spingeva la popolazione a ribellarsi; quella sofferta oggi deve essere sempre ben presente nel messaggio da trasmettere ai giovani.
Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare?;
Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile.
La scelta era di tipo manicheo, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Naturalmente ci furono persone che preferirono defilarsi e rimanere nell’ombra, ma chi si rendeva conto delle condizioni del nostro Paese poteva pensare soltanto che era indispensabile assumersi le proprie responsabilità. Diversa era la situazione prima e all’inizio della seconda guerra mondiale, nella quale l’Italia entrò a fianco della Germania il 10 giugno 1940. Sarebbe troppo lungo tentare di chiarire l’atmosfera umana e sociale che si stava verificando con una guerra che ineluttabilmente si avviava, dopo pochi mesi dall’inizio, alla sconfitta. Soltanto i fascisti fanatici non volevano capire come stavano andando le cose (anche perché la sconfitta significava la fine del loro potere): il fronte di guerra in Africa settentrionale non aveva possibilità di successo, e la ritirata in Russia riportò in Italia truppe alpine che avevano visto da vicino la ferocia dei nazisti e l’incapacità organizzativa del governo fascista.
Dopo oltre sessant’anni da quelle vicende non è facile ricostruire esattamente l’atteggiamento di allora: troppi avvenimenti si sono succeduti in seguito per poter essere precisi. Per esempio: sapevamo che in Germania c’erano i campi di concentramento, ma non eravamo a conoscenza della tragedia dello sterminio. Io ho vissuto l’atmosfera morale e politica di chi non aveva dubbi sulla scelta da fare e non mi rendevo conto delle ragioni di chi stava dalla parte dei fascisti e dei tedeschi. Li consideravamo non soltanto cretini ma anche criminali. Ascoltavamo Radio Londra e ci sembrava che tutto quello che facevano gli angloamericani fosse perfetto. Salutammo lo sbarco in Sicilia come l’inizio di una situazione che ci avrebbe portato alla libertà, sorvolando sugli errori militari (Cassino e Anzio) e considerando ineluttabili certi bombardamenti aerei di tipo terroristico. Terrorismo era però una parola allora sconosciuta. Ma terroristiche furono le stragi naziste di Boves, di Marzabotto, di Stazzema e di altri paesi che provocarono violente reazioni.
Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi, divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. A chi, come me, era di famiglia e ambiente borghese gli scioperi operai (i primi sotto il fascismo) della primavera del 1943 fecero molta impressione. Gli adulti che frequentavo (per esempio professori di liceo classico) pontificarono: “Non è uno sciopero politico. È soltanto dovuto alla fame”. Per noi giovani i libri di Marx non erano disponibili e non sapevamo opporci all’idealismo crociano che imperava fra gli intellettuali. Per quanto mi riguarda e per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica.
Sappiamo che i luoghi e le persone conosciute in quegli anni sono entrati nella tua attività di scrittore, basta pensare al romanzo-inchiesta Incendio a Cervara (Il Formichiere, 1974). Come l’esperienza diretta degli avvenimenti a cui hai partecipato o che comunque hai vissuto è entrata nei libri che hai scritto per ragazzi?
Oltre a Incendio a Cervara (mio unico romanzo per adulti) nei libri per ragazzi ho cercato di trasmettere, anche nei libri che traggono origine dalle fiabe tradizionali, l’esigenza della libertà e del rispetto delle persone, indipendentemente dalla loro provenienza.
Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista?
La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe sia verso il fronte (la “linea gotica”) che verso le valli dove operavano i partigiani. A quell’epoca io ero già “grande” (nel 1943 avevo 19 anni) e quindi ho visto ma non vissuto la vita dei ragazzini, ma credo di poter dire che la parola “bande” non sia esatta. Parlerei piuttosto di piccoli gruppi (nati nei cortili delle case popolari, o dalla vicinanza di case in strade di periferia) che facevano capo ad adulti che ne indirizzavano l’attività.
La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti?
La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan (dove se non c’è una guerra, bambini e ragazzi sono venduti e sfruttati). Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali?
(da LiBeR 66)