Continuare a ridere e a giocare: questo è quanto succedeva spesso ai bambini durante la guerra, se fortunatamente non venivano colpiti in modo diretto dagli avvenimenti. Ed é quello che ha vissuto e raccontato la scrittrice Teresa Buongiorno, bambina durante quegli anni drammatici.
Negli anni della Resistenza eri una bambina. Quali ricordi di quel periodo hanno segnato la tua vita?
Quand’ero bambina e c’era la guerra, non era come adesso. Non c’era la tv, le notizie arrivavano dalla radio, ed erano bollettini ufficiali del governo, non troppo attendibili. C’era Radio Londra, a raccontarci la verità, ascoltata a notte, con le finestre chiuse, le porte sbarrate, in gran segreto. Della Resistenza non ho sentito parlare fino a guerra finita, quando le suore della mia scuola (andavo in una scuola privata) cercarono un cappellano adatto per delle adolescenti e chiamarono un giovane prete che aveva fatto il partigiano.
Aveva poco più di trent’anni e si era battuto per la democrazia. Talvolta ci parlava di quell’esperienza, di un suo compagno di lotta che era morto per i suoi ideali, e una volta ci fece vedere una piccola valigia con i suoi cimeli: la bandiera, un quaderno, delle lettere, delle foto. I suoi discorsi furono l’inizio di una scoperta progressiva: leggevo le Lettere dei condannati a morte della Resistenza, i romanzi di Wiechert perseguitato dai nazisti, ed era un nuovo modello morale che mi si presentava. Negli anni universitari ebbi amici impegnati politicamente, con cui era tutto uno scambiarsi di libri: Vasco Pratolini (soprattutto le Cronache di povere amanti), Elio Vittorini (soprattutto Uomini e no); mi unii a un gruppo raccolto attorno a una rivista interpartitica, Terza generazione. Furono esperienze fondamentali; quanto alla mia famiglia, mia madre aveva partecipato alla fondazione di un partito, subito dopo la guerra. Mio padre, dirigente di una banca, che si era rifiutato di andare al nord con la Repubblica di Salò, fu epurato e vide andare al suo posto uno che invece al nord c’era andato...
Come l’esperienza diretta degli avvenimenti è entrata successivamente nei libri che hai scritto per ragazzi?
Tutte le esperienze che ho fatto finiscono per filtrare nelle storie che scrivo. Non saprei fare altrimenti. Anche se racconto di epoche passate e lontane, le emozioni, i sentimenti, i caratteri dei personaggi, sono cose pescate nelle mie esperienze. Soltanto di recente ho iniziato a scrivere storie che mi riguardano direttamente, prima con un racconto, Sapore di guerra (pubblicato in una raccolta che ha riunito pezzi di dodici autori diversi, tra cui Piumini, Pitzorno, Solinas Donghi, Gomboli, Mino Milani: Quando avevo la tua età, Fabbri, 2001) poi in Io e Sara (Piemme, 2003) che è per metà autobiografico. È molto più difficile parlare di cose in cui siamo stati coinvolti, si rischia di non essere sufficientemente distaccati, ci vuole una maggiore padronanza della scrittura. Alla fine ho osato, ma ho preferito mescolare le carte, così io sono e non sono la piccola protagonista, la mia famiglia è solo in parte quella reale, ma sono veri i fatti, le esperienze quotidiane, le piccole cose.
In Io e Sara scrivi che i bambini durante la guerra continuavano a ridere e giocare, anche le bambine ebree nascoste in un convento di suore. Si tratta di incoscienza, assuefazione o anche di una forma di “Resistenza civile”?
Durante la guerra i bambini continuavano a ridere e giocare, proprio così. Non era incoscienza, né tantomeno Resistenza civile! Era assuefazione: la vita era cambiata, questo era il contesto, e finché non ti colpiva in modo cruento, ti pareva impossibile che potesse capitare qualcosa di brutto, anche se eri costretto a nasconderti. Quando ho scritto il mio libro ho chiesto alle ex bambine ebree se ero io che non avevo saputo vedere il loro dolore, e loro mi hanno detto ridendo che non avevano sofferto, non erano state più in pena di altre che avevano il padre al fronte, per la maggior parte del tempo se ne dimenticavano. Era stato come andare in collegio, per forza maggiore. Tutto qui: e poi non c’erano le immagini della tv a farti prendere coscienza della situazione. Loro non sentivano la radio, non c’erano le radioline a transistor, ancora. Per noi che eravamo in famiglia la radio era una voce anonima, una manciata di secondi. Semmai tendevamo l’orecchio ai discorsi dei grandi, quelli sussurrati, quelli segreti. Pensavo che l’abitudine alla guerra fosse naturale per noi che, stando a Roma, non la vedevamo da vicino, almeno fino a che non c’è stato il bombardamento a San Lorenzo. Invece quando ho preso il Premio Andersen, a Genova, un ragazzino albanese di quinta elementare mi ha detto che proprio questo fatto l’aveva colpito nel mio libro, perché lui la guerra l’aveva vista da vicino, ci era vissuto dentro, eppure ci si era abituato, e non aveva smesso di ridere e di giocare, e si sentiva in colpa per questo. Trovare che qualcun altro aveva provato le stesse cose l’aveva consolato: “e per questo ti abbraccio” mi aveva detto, ed era venuto fuori dal gruppo ad abbracciarmi. Abbracciava la bambina che ero stata, credo.
(da LiBeR 66)