La letteratura per ragazzi deve essere realmente attenta agli altri, attraverso parole con la maisucola che legano il quotidiano alla diversità.
di Francesco D’Adamo
Da tanti anni giro l’Italia per incontrare i miei lettori e so per esperienza che presto o tardi qualcuno alzerà la mano e mi farà la domanda da un milione di dollari: “Senti, ma tu perché scrivi proprio queste storie? Che sono belle e interessanti, per carità, lo dice anche la prof. Perché invece non scrivi qualche romanzo di avventure o una bella storia di vampiri con i morsi sul collo e tutto? Non ti piacciono queste storie?”. Se mi piacciono? Vado matto per le belle storie di avventure. Ne ho lette un sacco. Quando da ragazzo mi aggiravo per le strade di Cremona, dove sono cresciuto, temevo sempre di sentire, tra le spirali della nebbia e le ombre di certe stradine, il sinistro sibilo del laccio di seta con cui i Thugs, i sanguinari adoratori della dea Kalì, usavano strangolare le loro vittime. Oppure nei pomeriggi d’estate, nell’afa opprimente della Bassa, mi guardavo attorno timoroso di veder spuntare all’improvviso tra gli stentati cespugli dei giardini pubblici una kalabag, la feroce tigre mangiatrice d’uomini (se invece non mangia gli uomini si chiama solamente bag, ma fa paura lo stesso).
Da Salgari, una grande lezione
“Non ci sono tigri a Cremona”. Lo so anch’io. Ma avevo nove anni, ero un fifone con una fantasia sfrenata e leggevo i romanzi di Emilio Salgari: I misteri della jungla nera, Le tigri di Mompracem, le avventure di Sandokan, la Tigre della Malesia. Passavo interi pomeriggi nella jungla, tra liane, piante carnivore, animali misteriosi; davo l’assalto alle cannoniere degli oppressori inglesi stringendo tra i denti un kriss (pugnale dalla lama serpeggiante); entravo nel tempio segreto dei Thugs, tra orrori inenarrabili, per salvare la bella Ada destinata al sacrificio. Facevo delle sudate … arrivavo a sera stremato e felice. Ma la domanda ne presuppone altre, più complicate e intriganti: “Perché proprio quelle storie? C’è qualcosa di autobiografico in quello che scrivi? Da dove vengono, insomma, le storie che raccontano gli scrittori?” E che ne so? Vengono e basta. “Non puoi cavartela così”. D’accordo, ci provo. Curiosità legittima: anch’io ero convinto che Salgari avesse fatto il pirata prima di ritirarsi dagli affari e mettersi a scrivere, o perlomeno che fosse stato un vecchio lupo di mare. Poi ho scoperto che il mare non l’aveva mai visto e che le sue incredibili avventure nascevano nel chiuso del suo studio di Torino. “E come faceva allora a inventarsi la jungla, l’oceano, le tempeste?” . Ci riusciva perché era un grande scrittore. Un grande scrittore può inventarsi qualunque cosa, non c’è limite alla fantasia di uno scrittore – e di conseguenza a quella di un lettore. Quindi, anche per quello che mi riguarda, di direttamente autobiografico non c’è quasi niente; ma nelle mie storie, in quelle storie, ci sono tutto intero io, col mio mondo e con le esperienze che ho attraversato, che ho sognato, che ho voluto o che sono venute a cercarmi.
Uno scrittore è il suo immaginario. L’immaginario è un magazzino immenso, un deposito inter-galattico, un hangar spaziale dove si accumula giorno dopo giorno tutto quello che ci colpisce e ci rimane nella pupilla e nella mente, una storia, una frase, un fotogramma, il sorriso di una ragazza o di un ragazzo, un ritornello, un odore, un’emozione forte, un frangersi di vento, la schiuma sull’acqua, una parola portata dal vento. Libri, film, musica, e nel mio caso la realtà, il mondo che ho sempre cercato di capire e di vivere da protagonista. Per sua natura, l’immaginario è democratico: lui non fa distinzioni, archivia e conserva tutto quello che ci colpisce, che sia una frase di Shakespeare o un western di serie B, che sia un fumetto o il sorriso della Gioconda. è a questo guazzabuglio che lo scrittore attinge quando scrive le sue storie.
Da Zanna Bianca e Robin Hood ad Anna Frank
“Ma nel tuo guazzabuglio cosa c’è?”. Un sacco di roba. In ordine sparso: romanzi, fumetti, film, musica, di tutti i tipi e generi perché io ho sempre letto, visto e ascoltato di tutto, senza fare lo schizzinoso. Sono curioso. Da tutto questo non solo ho preso spunto – consapevolmente o meno – per i miei romanzi ma ho anche imparato a scrivere, ho imparato i trucchi del mestiere, il ritmo, la bellezza e la musica delle parole. Tex Willer e L’isola del tesoro, il Nautilus e Capitano Nemo, i cartoon di Gatto Silvestro e l’epopea del west, Zanna Bianca di Jack London e Robin Hood di Alexandre Dumas. Le letture che fai da ragazzo possono essere decisive per determinare che tipo di adulto sarai: terminata la lettura di Robin Hood – avrò avuto dieci anni – decisi che io sarei sempre stato dalla parte di Robin che rubava ai ricchi per dare ai poveri e contro lo Sceriffo di Nottingham che rubava ai poveri per dare ai ricchi. Beh, continuo a pensarla così dopo tanti anni: grazie Robin! Vedete: i romanzi possono raccontare il mondo, farvelo capire, spiegare la realtà, meglio dei giornali, della tv, di Internet e compagnia.
“Seh! Dici così perché sei antico”. No. è che la poltiglia che cola ogni giorno dai 999 canali televisivi mostra poco e non spiega nulla. Internet? Dà delle informazioni – ammesso che non siano false, il che capita molto più spesso di quanto possiate immaginare – ma non spiega nulla del mondo e della sua complessità o della complessità dei sentimenti, che pure è roba importante. Sembra un paradosso, ma soprattutto oggi – nell’epoca della presunta comunicazione globale – i romanzi hanno ancora la capacità di spiegare il mondo, i rapporti tra i popoli, le razze, le religioni, le persone, solo i romanzi possono percepire le sfumature, le differenze e le somiglianze, le contraddizioni e le ragioni profonde e nascoste o inconfessabili. Chi vive con la testa nello smartphone e negli a-social network vive fuori dal mondo e dal reale e i danni sono sotto gli occhi di chiunque li voglia vedere.
Il Diario di Anna Frank è un romanzo che mi ha raccontato la realtà quando ero adolescente. E poi una canzone che ho ascoltato per caso un pomeriggio qualunque, era intitolata Auschwitz, la cantavano I Nomadi, e parlava proprio di quella cosa lì. Ma si può fare una canzone – una bella canzone – su una cosa del genere? Sì che si può. Fu una rivelazione. Poi ascoltai le canzoni di un giovanotto genovese con la faccia da schiaffi che parlava di guerra, di emarginati e di una principessa che in realtà era una prostituta. Accidenti! Faccia Da Schiaffi - De Andrè riusciva a cantare questi personaggi con una poesia, una delicatezza, una malinconia che solo i più grandi riescono a trasmettere. E poi c’è stata la grande stagione del rock degli anni ’70: le chitarre elettriche che diventavano la colonna sonora della ribellione, della voglia di amore e di libertà e di un mondo migliore. Woodstock, tre giorni di amore, pace e musica: ricordo che quando uscimmo dal cinema con ancora negli occhi e nella mente l’immagine di Jimi Hendrix che martellava alla chitarra l’inno americano davanti al prato ormai deserto, con il vento che smuoveva i teli di plastica, ci mettemmo a ululare alla luna. Era quello che avevo sempre sognato di sentire, erano le sensazioni che avevo sempre sognato di provare. Le ho provate poi davvero quelle sensazioni, tante volte.
Moby Dick, Cuore di tenebra e Furore
Dovrei citare tanti altri romanzi che mi hanno formato, ma come si fa? Sono troppi. Ne ricorderò solo due che ancora riprendo in mano periodicamente perché ogni volta hanno qualcosa di nuovo da darmi: Moby Dick di Melville e Cuore di tenebra di Conrad. Due romanzi sull’immensità. Due viaggi, uno attraverso gli Oceani, l’altro lungo un fiume che sembra un serpente arrotolato nel cuore dell’Africa. Due storie che – appunto – raccontano il Mondo e l’Uomo e la Vita e la Morte, come si fa a non usare le maiuscole? Tre personaggi indimenticabili: il Capitano Achab, la Balena Bianca, Kurtz, il mercante d’avorio, la misteriosa Voce che parla dal centro del cuore di tenebra del mondo. Ma dov’è il cuore di tenebra del mondo? In Africa o nel cuore nero dell’Europa coloniale?Poi l’incontro con Furore di John Steinbeck. Veramente era un libro “per adulti” (qualcuno mi spiega cosa vuol dire?) ma io lo sgraffignai ugualmente dalla biblioteca, evadendo dalla sala ragazzi in cui mi volevano confinare, e riuscii a farmelo prestare. Furore racconta la grande crisi del 1929 in America, quando milioni di americani persero terra, casa e lavoro perché alcuni eleganti e ricchi signori con il cappello a cilindro avevano fatto crollare la borsa, lassù a New York City, in una strada chiamata Wall Street. Non pretendo di aver capito, leggendo il romanzo, che cosa mai volesse dire “crollo della borsa” o di aver afferrato fino in fondo i perversi meccanismi economici che avevano determinati la crisi. Ma capii perfettamente che cosa voleva dire essere una famiglia di contadini dell’Oklahoma che all’improvviso perdono tutto e caricano quattro carabattole su una vecchia automobile asmatica e partono per andare a cercare lavoro e fortuna in California o da qualche altra parte. Tom Joad e la sua famiglia attraversano un’America povera e disperata come loro, e conoscono l’ostilità e l’odio e il razzismo di chi non li vuole perché sono “stranieri” (ma noi siamo americani come voi!), perché sono okky − straccioni dell’Oklahoma, appunto, e perché questi “vengono a rubarci il lavoro”. L’avete già sentita questa frase? Che emozione più di trenta anni dopo ritrovare Tom Joad in una ballata di Bruce Springsteen (“benvenuti nel nuovo ordine mondiale”) che racconta di un’altra crisi provocata anche questa da alcuni eleganti e ricchi signori che … eccetera eccetera. Come si ripete male la Storia! Capii perfettamente come ci si sentisse a sentirsi chiamare okky perché io a Cremona ero chiamato sciavo, poco simpatico modo per indicare chi, come la mia famiglia, era arrivato alla fine della guerra dall’Istria, che poi sarebbe diventata Jugoslavia. Sono figlio di profughi che arrivavano allora come arrivano oggi: lasciandosi tutto alle spalle con due valige e poco altro. Era dura, vi assicuro. Eravamo italiani, in realtà, ma ci guardavano strano. Okky, sciavi, terroni, marocchini…
Emigrazione
E allora: Emigrazione è una delle parole chiave dei miei romanzi, una delle parole che ho non dentro la testa ma dentro la pancia. Non solo per ragioni – in questo caso – autobiografiche ma per il dolore e la rabbia davanti alle scene che da anni vediamo alla televisione, quelle carrette del mare, quei corpi nell’acqua, i giubbotti di salvataggio o le lunghe file di profughi in marcia lungo le autostrade per cercare di arrivare a un confine che sarà sbarrato con il filo spinato. Rabbia davanti ai discorsi cattivi, stupidi e violenti che sento fare in tv come al bar sotto casa, da quelli che urlano: non li vogliamo, mandiamoli via, ci rubano il lavoro. Già sentita questa storia? Nel mio romanzo Storia di Ismael che ha attraversato il mare ho voluto raccontare la storia di un ragazzo di quindici anni che i fatti della vita costringono a lasciare il suo paese nel nord Africa e a tentare di raggiungere l’Italia. L’ho raccontata dal suo punto di vista perché volevo provare – e farvi provare – cosa vuol dire trovarsi in mezzo al mare, di notte, al buio, in sessanta su una barca che ne può contenere la metà e che si inclina, salta e beccheggia e all’improvviso sentire arrivare il temporale, il vento che si alza, la tempesta che arriva. Allora capisci che stai per morire. Provate voi prima di parlare e di dire crudeli sciocchezze. Questa è un’altra delle meraviglie del leggere: imparare a vedere il mondo con gli occhi di chi è diverso da noi. Che grande bisogno ce n’è!
Sfruttamento
Provo rabbia per l’ipocrisia di chi dice certe cose stupide e violente, perché dietro all’emigrazione c’è sempre lo sfruttamento. Nel mio romanzo più famoso e tradotto in tutto il mondo, Storia di Iqbal, racconto appunto una storia di sfruttamento, la storia vera del bambino Iqbal Masih, pakistano, schiavo, venduto a otto anni, condannato a lavorare incatenato a un telaio, dall’alba al tramonto, senza un passato, senza un futuro. Come lui nel mondo d’oggi ce ne sono almeno altri centocinquanta milioni, nei paesi più poveri dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina. Iqbal Masih saprà ribellarsi al suo destino, scapperà, porterà la libertà a migliaia di altri bambini schiavi sfidando la Mafia dei Tappeti, pagherà con la vita il suo coraggio, diventerà in tutto il mondo il simbolo della lotta contro lo sfruttamento minorile. Tutto questo avveniva nel 1995.
Vent’anni dopo ho scritto un altro romanzo, Dalla parte sbagliata, una specie di sequel– direste voi – che ha come protagoniste Fatima e Maria, le due bambine amiche di Iqbal, ormai cresciute, una che ancora vive in Pakistan, l’altra emigrata in Italia. Volevo capire cosa fosse cambiato vent’anni dopo il sacrificio di Iqbal. Un accidente di niente è cambiato. In Pakistan come in tutti i paesi poveri – quelli della parte sbagliata del mondo, appunto – le nostre industrie producono magliette e scarpe e felpe e tute e cappellini – tutti rigorosamente griffati, è ovvio – in capannoni come quello in cui lavorava Iqbal o in fabbriche tirate su in fretta e furia, dove ragazze e bambine lavorano senza sicurezza, senza diritti, senza niente e magari perdono la vita quando la fabbrica crolla (è successo, purtroppo). E anche in Italia Fatima scopre un bambino che lavora in una fabbrica clandestina e con lui intraprenderà un viaggio nell’inferno delle campagne italiane dove migliaia di immigrati lavorano alla raccolta dei pomodori e della frutta in condizioni disumane.
Coraggio
Gli immigrati sono carne da macello, devono lavorare per noi e però devono stare zitti, non romperci le scatole, possibilmente non farsi neanche vedere. Ci vuole coraggio. Io racconto storie di coraggio ma non di eroi. Iqbal Masih è stato un eroe, d’accordo, ma gli altri miei protagonisti sono ragazzi ‘normali’, a volte timidi e imbranati, magari anche un po’ fifoni che però trovano il coraggio, quand’è il momento, di fare la cosa giusta.
Come Johnny il Seminatore, il giovane aviatore mandato a bombardare un paese povero e lontano, che si chiama semplicemente Laggiù, e che trova il coraggio di dire di no, di tornare al suo paese per raccontare a tutti cosa veramente è quella guerra di cui parla in toni enfatici la tv. Johnny si scontrerà con l’indifferenza, il cinismo, l’ottusità dei suoi concittadini e combatterà la sua battaglia per la verità nonostante l’isolamento, la derisione, l’ostilità. Perché lo fa? Perché è giusto, accidenti.
O come Peg Leg Joe – Joe Gambadilegno – la Guida dell’Underground Railroad che negli Stati Uniti di metà Ottocento rischiava la vita per aiutare gruppi di schiavi neri a fuggire dalle piantagioni di cotone del Sud e li conduceva in un lungo e pericoloso viaggio, inseguiti dai cani e dai cacciatori di taglie, fino al Nord e alla libertà. Oh, freedom!, si intitola il romanzo, anche questa una storia vera. “Perché lo fai?”, chiede a un certo punto a Peg Leg Joe il bambino Tommy che con la sua famiglia è stato salvato dal Gambadilegno. “Oh, boy” risponde Joe “che ne so. Io non ho studiato, mi imbroglio con le parole. Lo faccio perché sento che è il mio dovere”.
Anche Harriet Tubman faceva il suo dovere. Schiava, nera, analfabeta, piccola, malata è l’incredibile donna che dà vita all’organizzazione dell’Underground Railroad, la prima Guida che poi ha addestrato le altre – tra cui Joe Gambadilegno. Nove viaggi attraverso gli States portando in salvo centinaia di schiavi. La Mosè dei neri, il generale Tubman, zia Harriet per gli schiavi del Sud per i quali diventa una leggenda. Mille dollari in oro la taglia posta dagli schiavisti sulla sua testa. Col fischio che la prendono. Durante la guerra civile comanda una spedizione dell’esercito nordista in Virginia (lei donna e nera!). Dopo la guerra capisce che per i neri nulla è cambiato e inizia la battaglia per i diritti civili che cento anni dopo porterà a compimento Martin Luther King. Che donna! Oh, Harriet! si intitolerà il mio prossimo romanzo che verrà presentato alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna.
Crescere
Fare il proprio dovere, crescere. Non saprei spiegare come si fa a diventare grandi, ci sono tanti modi. Ma sono convinto che si diventa davvero grandi imparando a riconoscere quali sono le cose giuste e trovando quel poco o quel tanto di coraggio per schierarsi dalla parte giusta. Diffidate da chi vi dirà che tanto tutto è uguale. Un bel niente.
Chiedetevi: “Da che parte sto io?”. Ascoltate la pancia e il cuore, ricordatevi di Robin Hood, chiedetevi ogni volta: Sandokan cosa farebbe? è facile in realtà. Quando ero all’università, a Milano, negli anni ’70, ho preso un bel po’ di botte manifestando con gli altri giovani contro la guerra nel Vietnam, la sporca guerra. “Ne valeva la pena?”: sì, è così che sono cresciuto e sono diventato l’uomo – e lo scrittore – che sono adesso. Come si faceva a non esprimere la propria indignazione davanti alle immagini terribili della guerra, dei bombardamenti con il napalm? O degli orrori delle dittature che massacravano i cittadini della Spagna franchista, dell’Argentina, della Grecia?
“Ma a te cosa importava del Vietnam? O dell’Argentina o … sono paesi così lontani”. Mi importava invece. Mi importa ancora adesso, perché i diritti degli altri sono i miei diritti, che siano i migranti torturati nei campi profughi libici o i bambini di Baghdad o della Siria o della Palestina.
Gli anni ’70 ormai sono storia ma oggi i motivi per indignarsi e decidere di fare finalmente qualcosa sono ancora più di allora – viviamo in un modo terribile, ve ne sarete accorti. Accidenti! Arrabbiatevi un po’ per favore! Finisco sempre per fare discorsi troppo seri e importanti. Perdonatemi, mi faccio prendere dalla passione. Io sono fatto così.
Diversità
Magari esagero ma è così che nascono i miei romanzi, quelle storie. Sono anche storie di diversità. C’è chi ha paura della diversità. Qualcuno basta che veda una faccia diversa dalla sua e si spaventa. Sente una lingua diversa dalla sua e si spaventa. Basta che gli condiscano gli spaghetti in maniera diversa e si spaventa. Figuriamoci se poi non gli danno da mangiare gli spaghetti ma qualcos’altro. Ma che noia, che brutto modo di vivere! Svegliatevi!Io amo la diversità. Non riesco a immaginare niente di peggio che un mondo in cui tutti sono come me, parlano come me, la pensano come me, si vestono come me. Un incubo.
A me piacciono quelli un po’ diversi, anche un po’ strampalati, molti dei miei protagonisti sono così. Prendete i tre ragazzi di Papà sta sulla torre: Nino ha un papà che lavora in fabbrica, è un sindacalista soprannominato Testadipietra perché ha un carattere molto forte. Testadipietra difende i diritti dei lavoratori con grande passione e determinazione. Quando la sua fabbrica chiude e licenzia tutti, papà sale sulla Torre, la ciminiera più alta del paese, per gridare a tutti la sua rabbia: “Non scenderò fino a quando la fabbrica non riapre”. Passano i giorni e le settimane e non succede niente. Allora Goffy – l’amico del cuore di Nino – ha una delle sua strampalatissime pensate: sostiene che gli hanno scritto gli alieni – via mail – e che arriveranno loro sulla terra per risolvere tutti i problemi e portare Lavoro, Pace & Libertà. Goffy è uno strano davvero! Ma Nino fa finta di credergli: l’appuntamento con gli alieni è al vecchio Petrolchimico, chiuso e abbandonato da anni, luogo spettrale e maledetto. L’unico modo per arrivarci è navigare sul Fiume Nero tutta la notte, l’appuntamento è all’alba. Che avventura, come si fa a dire di no? A questa strana coppia si unirà all’ultimo una ragazza, Cassandra Vu, che veste sempre di nero, ha fama di essere una profetessa di sventure e che si nasconde dietro la cortina dei suoi lunghi capelli scuri. E quando arriva l’ora dell’appuntamento … Ecco, nelle mie storie mi piace unire realtà e fantasia, la durezza del quotidiano e il guizzo della diversità.
Indignazione
Dovrei parlarvi ancora di una parola che ho dentro la pancia, ed è indignazione. Ma non ce n’è bisogno, ne ho parlato fino ad ora, l’avete capito: le mie storie nascono perché, per fortuna, sono ancora capace di indignarmi. è il mio modo per salire sulla Torre e farmi sentire, per provare a fare qualcosa, per continuare a stare con Robin Hood contro tutti gli sceriffi di Nottingham del mondo – ce n’è un sacco, sapete? è questo che esce dal grande magazzino del mio immaginario, da tutto quello che ho letto, visto, sentito e vissuto, perché io i papà sulle Torri li ho visti davvero, ho parlato con loro, ho passato le notti al loro fianco ogni volta che ho potuto. Questo è il mio modo di vivere il mestiere dello scrittore. Intendiamoci, a scanso di equivoci: non è l’unico e non penso che sia il migliore.
(Testo pubblicato nel numero 118 di LiBeR)