Nato e cresciuto in Svizzera, emigrato in Australia, ora Armin Greder vive in Perù. I suoi libri sono dolorosamente attuali: L’isola, Gli stranieri e, di prossima pubblicazione presso Orecchio acerbo, Mediterraneo indagano l’indifferenza, l’ottusità, l’intolleranza umane. Ce ne parla in questa intervista raccolta da Angela Dal Gobbo.
ORIGINI
Potrebbe dire qualcosa delle sue origini? So che lei è nato in Svizzera; i suoi genitori erano svizzeri? Quali sono le sue radici?
Sono nato in una cittadina operaia sul confine tra i cantoni tedesco e francese della Svizzera. Mia madre veniva da un villaggio dell’Emmental; di mio padre – che è morto quando avevo 12 anni – so solo che era stato adottato. Entrambi i miei genitori lavoravano: mia madre a casa, a cottimo per gli orologi Omega, e mio padre come ebanista in una fabbrica di pianoforti. A casa parlavo il dialetto svizzero tedesco [lo Schwyzerdütsch, parlato correntemente nella Svizzera di lingua tedesca, N.d.T.]. A scuola ho imparato a leggere e a scrivere in tedesco. Dal momento che la cittadina era bilingue, ho imparato anche il francese. Forse è per questa babelica situazione che le lingue mi hanno sempre affascinato – in particolare il diverso modo di pensare in ciascuna lingua.
Lei ha affermato che il suo girovagare per i continenti nasce dalla lettura dei libri di viaggi che sua madre le portava dalla biblioteca; quale influsso ha avuto sua madre su di lei?
Per molto tempo mia madre ha avuto una grande influenza su di me. Non era particolarmente colta, a parte la normale scolarizzazione, ma nonostante le sue umili origini aveva orizzonti sorprendentemente ampi: parlava francese e inglese, era una buona lettrice, sapeva conversare con intelligenza e aveva un forte senso dell’umorismo (un altro aspetto di mia madre, completamente diverso, si può conoscere leggendo La città). E era curiosa. Mi ha trasmesso questa curiosità nutrendola con i libri della biblioteca locale: mi hanno aperto al mondo. Quando, molto tempo dopo, mi sono ritrovato in alcuni di quei posti che allora mi sembravano così irraggiungibilmente esotici e lontani – le isole galleggianti del lago Titicaca, il Registan a Samarcanda, il palazzo di Potala a Lhasa – ho provato una sorta di epifania, come se un incontro a lungo annunciato avesse finalmente avuto luogo, contro ogni previsione.
LUOGHI
Le sue storie sono collocate in luoghi geograficamente definiti: un’isola (la Svizzera, ne L’isola), un paese dove c’è la guerra (verosimilmente la Palestina ne Gli stranieri), il mare Mediterraneo in Mediterraneo (di prossima uscita per i tipi di Orecchio acerbo). Peraltro lei ha attraversato tre continenti. A quali luoghi si sente più legato? Da quali è fuggito e dove non vorrebbe più tornare?
Delle tre storie che lei ricorda – L’isola, Gli stranieri e Mediterraneo – solo le ultime due sono legate a un luogo, anzi sono storie di luoghi reali. L’isola è diversa: sì, pensavo alla Svizzera quando la scrissi, e sì, i personaggi sono quegli uomini svizzeri della mia infanzia, che parlavano di politica ed erano patriottici e che incontravo nei caffè dove mio padre mi portava, ogni tanto, la domenica mattina. Diversamente dalle altre due storie, questa non riguarda un luogo ma un problema.
A quali luoghi mi sento più vicino? Dipende: talvolta al mio appartamento, dove posso chiudere porte e finestre ed escludere il mondo; talvolta a un posto dove sono stato recentemente – non molto tempo fa sono stato in Iran e ora continuo a pensare a tutto quello che non ho visto lì; qualche volta a un posto di cui ho letto – ho viaggiato per sei mesi attraverso la Cina dopo aver letto Il gallo di ferro. In treno attraverso la Cina di Paul Theroux. E sempre al deserto, con il silenzio e con la solitudine, scoperti la prima volta in uno dei libri che mia madre mi portava.
Evito gli USA, ora più che mai. E Israele (per capire perché, basta leggere Gli stranieri).
C’è un posto in particolare in cui lei si sente a suo agio per disegnare e per scrivere?
Per quanto riguarda l’illustrare, qualsiasi posto che abbia un tavolo e dove ci sia una buona luce va bene. In Australia avevo uno studio di quaranta metri quadri, mentre qui in Perù è di circa quindici. A Roma ho realizzato due libri su una piccola scrivania in un seminterrato. Scrivere è ancora più semplice: lo faccio in treno, in aeroplano, in nave. Con un computer portatile, naturalmente.
FORMAZIONE
A chi sente di dovere qualcosa del suo lavoro? A quali autori e a quali illustratori? Come ha iniziato a occuparsi di illustrazione?
La mia infanzia è stata silenziosa e solitaria: ero figlio unico in un quartiere dove c’erano pochi altri bambini. La vita in casa era dominata dalla paura di venire sfrattati dalla proprietaria (che abitava nell’appartamento di sotto) se facevo rumore. Scoprii che il disegno era un eccellente aiuto all’immaginazione. Incoraggiato da mia madre e dalle circostanze – disegnare è un’attività silenziosa – ho dipinto moltissimo. E a quell’età in cui i bambini di solito smettono di disegnare, io ho continuato a farlo.
Quando è stato il momento di scegliere una professione, fare arte è venuto da sé. Così ho fatto tirocinio come disegnatore presso uno studio di architettura (oltre a disegnare, mi piace costruire). Non sono andato avanti con l’architettura. Invece ho costruito modelli, realizzato fumetti per riviste, mi sono dilettato nel graphic design; ho insegnato sport e arte in una scuola privata, ho fatto il manovale nei cantieri edili; mi sono sposato, ho avuto due figli.
Nel 1970 ho scoperto che il governo australiano pagava il viaggio a quegli immigrati che si impegnavano a restare nel Paese per almeno due anni. Era troppo bello per lasciarmelo sfuggire. Sono andato in Australia e, come si è poi dimostrato, non sono mai tornato indietro. Lì, bluffando, sono entrato in un’agenzia di pubblicità e dopo qualche anno di un impiego redditizio (ma che distruggeva l’anima nel tentativo di convincere le persone a comperare quello di cui non avevano bisogno) ho trovato un lavoro come insegnante di disegno e di design in una scuola d’arte. La Queensland College of Art era allora una scuola di arte tecnica, e gli insegnanti venivano scelti sulla base dell’esperienza professionale, non dei titoli accademici; il mio portfolio di graphic design deve averli impressionati abbastanza da darmi il lavoro.
Qualche tempo dopo gli studenti richiesero un corso di illustrazione; a me e ad altri tre colleghi venne assegnato il compito di istituire un corso del genere. Nessuno sapeva molto di illustrazione, ma imparammo insieme agli studenti. Insieme ai miei studenti sono diventato un illustratore.
Come ha sviluppato il suo stile?
Un problema particolare nell’illustrare i picture books è la continuità: un personaggio deve rimanere lo stesso in diverse situazioni – sorridente, arrabbiato, addormentato, ecc. Un disegno saldamente controllato risolve il problema, ma può dare origine a immagini legnose e senza vita. Scoprii che il carboncino con i pastelli mi dava il controllo necessario senza uccidere l’immagine. Perciò molti dei miei libri sono fatti in questo modo.
In alcuni libri la continuità non era un problema, perciò ho scelto pennello e inchiostro, tecnica che non si basa sul controllo ma sulla spontaneità. Il risultato è molto espressivo, ma comporta un grande spreco: nove tentativi su dieci finiscono nella spazzatura.
Comunque, al di là di queste considerazioni, lo stile dipende dal movimento del tutto personale della mano e delle dita. È il movimento a rendere personale un disegno, così come avviene per la scrittura a mano.
Quale scrittore ammira? Di quale scrittore vorrebbe illustrare i testi?
Alcuni tra i miei scrittori preferiti sono: Nicolas Bouvier, per come racconta poeticamente i viaggi; Goethe, per il modo in cui gioca col linguaggio; Eduardo Galeano, perché corregge la storia e perché mi ha dimostrato che anch’io posso scrivere.
Tuttavia nessuno di questi scrittori può essere veramente illustrato e nessuno dei loro scritti ha bisogno delle illustrazioni per completare le parole – il che mi porta a un’altra considerazione: un’illustrazione è inutile se ripete semplicemente quel che dice il testo. Sicché, se un’illustrazione deve essere più di una semplice decorazione, il testo deve essere abbastanza sintetico da permettere all’immagine di fare la sua parte. Quello che Helen Garner ha detto a proposito dello scrivere sceneggiature per i film – cioè che lo scrittore deve permettere all’attore di aggiungere gli aggettivi – vale anche per i testi dei picture books. Molti scrittori non lo capiscono e realizzano testi così descrittivi da non lasciare spazio alle immagini. Questo è il motivo per cui, quando gli editori mi spediscono manoscritti di questo tipo, li rifiuto.
LIBRI
Lei preferisce illustrare il testo di un altro autore, oppure creare completamente da sé la storia, con parole e immagini?
Su un piano ideale scrittore e illustratore dovrebbero essere la stessa persona. Ma c’è un problema: è molto più facile illustrare una storia che inventarla. Il che spiega perché tre quarti dei libri che ho illustrato sono stati scritti da altri, e la maggior parte da Libby Gleeson, una scrittrice australiana. Nel tempo io e lei abbiamo modificato l’usuale rapporto tra il testo, scritto prima, e l’illustrazione fatta dopo, arrivando a una collaborazione in cui i due aspetti si sovrappongono e si influenzano a vicenda, e di conseguenza parole e immagini si evolvono insieme. Durante gli anni in cui ho lavorato con Libby ho imparato molto, non solo a proposito dell’illustrazione, ma anche della scrittura.
Dicono di lei che si avverte, nel suo modo di disegnare, l’origine europea: è vero? Se è vero, in cosa consiste?
Io sono europeo e sono cresciuto in un clima culturale europeo, di conseguenza è inevitabile che il mio immaginario sia europeo. Ma credo che il vero significato del mio modo europeo di illustrare consista nel fatto che le mie illustrazioni sono conservatrici, sono di un’altra generazione. Infatti i miei principali maestri sono Goya (specialmente le “pitture nere”), Käthe Kollwitz, Honoré Daumier, Rembrandt – tutti europei, di uno stile passato di moda da molto tempo. Quel che mi affascina, a parte il modo in cui disegnano, è che le loro immagini sono sempre al servizio di qualcosa di più importante: la storia. Goya raffigura in modo feroce i lati peggiori dell’umanità; Kollowitz denuncia la povertà e le sue cause; Daumier presenta una critica acida della classe media; Rembrandt rivela l’anima di chi ritrae. Questo tipo di impegno per una causa è praticamente inesistente nell’arte di oggi. Art Basel, la rivista d’arte Parkett, la Biennale di Venezia mettono bene in chiaro che è lo spettacolo a contare. Se c’è un impegno, è per l’ego. E per il denaro.
Il suo stile è graffiante, e i critici anglosassoni lo considerano anche un buon esempio di ironia. Quale considera lo stile più adatto agli albi illustrati, ammesso che ne esista uno?
Sono un pessimista riguardo alla natura umana (il che spiega perché prediligo gli artisti che ho citato). Non credo nella redenzione né nel lieto fine. Questo pessimismo naturalmente colora le mie storie e il mio immaginario, ed è infatti un ostacolo, di tanto in tanto. L’isola, per esempio, è stata a lungo considerata impubblicabile in Australia, e molti critici hanno espresso dubbi sul fatto che i miei libri fossero adatti ai bambini. D’altro canto io non scrivo o illustro per bambini o per qualche particolare lettore, ma per me stesso. E se questo rende una storia impubblicabile, allora lo sia.
Lo stile più adatto agli albi illustrati è quello che più si adatta alla storia raccontata. Le immagini de Il serpente tutto solo, ad esempio, non sono state realizzate in base a ciò che potrebbe piacere ai bambini, ma in base a quanto era necessario a quel tipo di storia.
Secondo lei sono importanti i libri illustrati oggi, nel nostro tempo? Svolgono un ruolo significativo nella nostra cultura?
Un libro - come la pubblicità e la religione - parla a chi è già convertito, nella migliore delle ipotesi a chi è pronto alla conversione. Il libro entra in empatia con il lettore e ne completa la visione, finendo per confermarla e rafforzarla. Per i bambini il libro è una guida, perché fornisce loro un modello di realtà (che è quanto fa anche il catechismo, ma con lo scopo di indottrinare, non per incoraggiare il pensiero critico). L’idea del libro come strumento didattico non è nuova; secondo Bruno Bettelheim le fiabe sono metafore il cui scopo consiste nell’aiutare i bambini ad affrontare le difficoltà della vita.
A quale dei suoi libri è più affezionato?
A L’isola. Non sono più riuscito a tessere così bene una storia come ho fatto lì.
Chi, secondo lei, potrebbe apprezzare di più i suoi libri? Qual è il suo pubblico ideale?
La maggior parte dei libri che ho illustrato e tutti quelli che ho scritto – Il serpente tanto solo è l’unica eccezione – riguardano problemi: conformismo, xenofobia, razzismo, desiderio di possesso, ecc. Di conseguenza il pubblico ideale – l’unico pubblico in effetti, dal momento che i lettori che la pensano diversamente non vanno oltre le prime pagine – è formato da quelli che la pensano in modo simile a me su questi problemi.
PATRIOTTISMO E RAZZISMO
“Quanto più sventolano le bandiere, tanto più temo il patriottismo, perché non è troppo lontano dal nazionalismo”, è scritto nella sua nota biografica sul sito di Orecchio acerbo. Sulla copertina del suo recente “Australia to Z” un bambino alza la bandiera australiana: perché ha scelto proprio quella copertina, peraltro molto bella? Ha un significato particolare?
Una volta, mentre aspettavo i miei nipotini davanti a scuola, stavo guardando un ragazzo di dieci anni mentre ammainava la bandiera – una routine quotidiana nelle scuole australiane. Sciolse il nodo, si fece da parte e fece cadere a terra la bandiera (un sacrilegio per qualsiasi nazionalista); tolse la bandiera dal filo, afferrò un angolo e partì, trascinando il simbolo nazionale dietro di sé, nella polvere. L’idea della copertina viene da qui. Ho dato al ragazzo una pelle un po’ scura e agli abiti il rosso e il bianco, i colori della bandiera, che invece non è colorata. Se il ragazzo stia sollevando o ammainando la bandiera, dipende dall’interpretazione del lettore. L’espressione e la posa del ragazzo possono essere lette come ciecamente patriottiche – sta alzando la bandiera con fervore nazionalista appropriato all’atto solenne – oppure come se non si preoccupasse del significato dell’azione e facesse semplicemente quello che gli è stato detto di fare. D’altronde l’immagine sul retro è inequivocabile: si tratta di un bianco bigotto di destra che crede nella superiorità della razza, prima di una dimostrazione razzista, così come viene presentato dai telegiornali. Sono rimasto piuttosto sorpreso che l’editore non l’abbia censurata.
Nei suoi libri lei mette in evidenza la discriminazione, i soprusi a danno dei deboli, il razzismo, i pregiudizi che dividono gli uomini. Anche noi italiani siamo soggetti al razzismo? Lei come vede la nostra società?
La mia visione della società italiana si vede in Italia-Z, che, a parte alcune differenze specifiche, è quasi identico a Australia to Z (che a sua volta è preceduto da Work). Inevitabilmente riflettono il mio personale punto di vista sulle due società in questione. In altri termini, dal momento che le due società sono osservate dagli stessi occhi, i risultati sono destinati ad assomigliarsi.
Non ho ragioni per pensare che il razzismo in Italia sia più forte che in Svizzera o in Australia, ma penso che con l’aumento degli immigrati anche il razzismo sia destinato ad aumentare - In Italia come in qualsiasi altro luogo dove malcontento e insicurezza portano alla ricerca di un capro espiatorio. Non è un caso che L’isola sia stato pubblicato in dieci lingue.
ABITUDINI
Nella nota biografica è detto che lei non fuma e non ama mangiare carne; che ruolo assegna alle abitudini alimentari?
È stato detto che siamo quel che mangiamo. Per quanto riguarda il corpo, sono d’accordo. Ma io non sono solo corpo, sono anche anima. Do al mio corpo il cibo che gli piace, e vi aggiungo l’aperitivo, il vino, il dessert e talvolta anche la grappa, che deliziano la mia anima. Tuttavia, per quanto potrebbe piacere alla mia anima, mi rifiuto di fumare per evitare le proteste del mio corpo.
Infine: cosa si augura per l’anno nuovo? Possiamo guardare al futuro con un po’ di speranza?
Ogni speranza, che le cose migliorino o almeno che non peggiorino, è bruscamente finita l’8 novembre scorso – a meno di non essere Vladimir Putin o un israeliano, che sta pensando di invadere il territorio palestinese.
(Una versione più breve dell’intervista è apparsa su LiBeR 114)