Intervista di Rita Valentino Merletti a Tony Ross, illustratore di Nicola Passaguai (Il Castoro, 2010), il libro ritenuto migliore dalla giuria dei bambini e dei professionisti del premio Nati per leggere 2012 nella sezione Crescere con i libri.
Lei è uno degli illustratori e autori più conosciuti e apprezzati nel mondo della letteratura per l’infanzia e nella sua lunga carriera è entrato in contatto con numerose generazioni di bambini. Ci può raccontare qualcosa della sua vita, di come è nata la sua vocazione e quali cambiamenti radicali ha avuto modo di osservare, in rapporto al modo di comunicare con i bambini?
Sono nato in un tempo e in un mondo molto diversi da quelli di oggi: Londra, 1938. Ho avuto due genitori speciali che mi hanno fatto vivere un’infanzia meravigliosa, nonostante la guerra. Mio padre era un illusionista e mia madre una ballerina, i mei zii erano attori e mia nonna era sorda. Scorrazzavo nei prati con una banda di amici con i quali inventavo storie sinistre e avventurose. La nostra fortuna era quella di divertirci insieme, anche senza tv, computer e cellulari. I telefoni del resto, all’epoca, non c’erano proprio. I libri erano i nostri giocattoli e le storie che contenevano per noi erano storie vere. Fin da bambino non facevo altro che disegnare e raccontare storie e non ho mai smesso di farlo. Nei primi anni di scuola avevo un teatro di burattini che avevo costruito io stesso e giravo per le classi a fare i miei piccoli spettacoli. Scrivevo le sceneggiature e insegnavo ai miei compagni il mestiere di burattinaio. Il mondo meraviglioso della mia infanzia oggi non esiste più e i bambini diventano adulti troppo pre-sto. Sono loro a insegnare ai genitori come usare il computer o il cellulare, sono più intelligenti e più smaliziati di quanto non siano mai stati. Tutto questo può essere positivo, ma non lo cambierei con la mia infanzia, con i miei giochi all’aria aperta e con i giocattoli che costruivo con qualunque cosa mi capitasse tra le mani. Penso dunque che ci sia una perdita di innocenza e gli autori contemporanei creano libri per bambini “esperti” del mondo, tanto quanto lo sono loro stessi.
Come noto, il focus del progetto Nati per Leggere è la prima infanzia e il modo con cui essa si rapporta ai libri e alla lettura. Pensa che oggi ci sia maggiore consapevolezza da parte degli editori per quelli che sono i bisogni specifici di questa particolare fascia di età o che viceversa prevalgano ragioni commerciali?
La crescita precoce dei bambini è fattore appetibile per un mercato di massa. Gli editori sono consapevoli di questo e quelli più attenti ascoltano volentieri le opinioni di esperti, insegnanti, psicologi e genitori. Il problema è che la maggior parte dei dati raccolti sono per l’appunto solo opinioni e se una opinione prevale e viene ribadita più volte diventa un fatto. Molti dei dati di cui disponiamo non sono altro che opinioni e possono talvolta metterci fuori strada. Io continuo a credere che ciò che conta di più nei libri per bambini sia la storia, così come penso che sia salutare per essi imparare a credere in ciò che è incredibile. Questo processo è meglio affidarlo all’immaginazione dell’autore piuttosto che alle risorse di “esperti” male informati. I bambini dovrebbero essere nutriti con il cibo dell’immaginazione e non con quello che proviene dalle convinzioni e credenze del mondo degli adulti. I libri dovrebbero aiutare i bambini a comprendere il mondo secondo i loro termini di giudizio e non attraverso le ricette degli adulti. Pediatri e neuroscienziati insistono sull’importanza dell’early literacy (inclusa la visual literacy). Ha evidenza di riscontri favorevoli in rapporto a progetti quali il britannico “Bookstart”, molto simile al nostro Nati per Leggere?
Non saprei. In generale non sono favorevole agli schematismi educativi. Bookstart e progetti simili aiutano certamente ad accrescere la consapevolezza degli adulti, e mi auguro che agiscano soprattutto sugli adulti. Lasciati più liberi i bambini imparano ciò che vogliono davvero imparare. Non c’è bambino che non sappia leggere l’insegna di MacDonalds davanti a un ristorante. La legge perchè la vuole leggere.
Più di 2.000 bambini tra i 3 e i 6 anni di età hanno giudicato Nicola Passaguai il miglior libro sulle problematiche familiari tra quelli che sono stati loro presentati. Hanno apprezzato la leggerezza e l’umorismo con cui la storia è stata raccontata e la giuria professionale ha condiviso pienamente la loro scelta. Ci può dire qualcosa della genesi di questo libro?
Nicola Passaguai è uno dei molti libri di successo creati in collaborazione con Jeanne Willis. In questo particolare libro Jeanne usa una forma tradizionalmente inglese di narrativa per bambini (Si pensi ad autori come Beatrix Potter, Kenneth Grahame, A.A. Milne). Fa uso di animali antropomorfizzati, ne racconta il comportamento senza porsi in antagonismo con il lettore adulto e cioè, in questo caso, il genitore iperprotettivo. La scelta dell’animale topo è utile perché, mentre animali come il cane, il gatto e il leone hanno una loro forte identità personale, i topi non ce l’hanno e sono quindi disponibili ad assumere su di sé tratti umani. Jeanne è una madre e una scrittrice molto esperta e la storia di Nicola Passaguai scaturisce proprio dalla sua profonda esperienza umana e professionale.
Trovo spesso nei suoi albi illustrati, sia nel testo che nelle illustrazioni, elementi che sono al di là della comprensione dei bambini di 2 o 3 anni a cui sono rivolti. Può spiegarci perché? Penso soprattutto ai libri con protagonista una piccola principessa (Voglio il mio vasino, Voglio il mio ciuccio).
Non scrivo spesso per bambini molto piccoli né sono particolarmente ferrato sui criteri che dovrei seguire se scrivessi per loro. Preferisco rivolgermi ai bambini un po’ più grandi. Ho sempre creduto che il testo verbale sia una precoce e semplificata introduzione alla letteratura, così come l’illustrazione è una introduzione alle arti grafiche. Ritengo che le arti grafiche siano il mio maggiore interesse. Sono scettico sulla necessità di suddividere i talenti e i bisogni dei bambini secondo la loro età e non voglio lavorare in quella prospettiva. Se mentre preparo un libro qualcuno mi dice che è troppo complesso per la fascia di età cui deve rivolgersi, io dico “Bene, lasciate che i bambini vadano su territori dove non sono mai stati prima. Lasciateli esplorare, lasciate che sviluppino i loro talenti”. Se poi mi dicono “Può essere così, ma che succede se il bambino non capisce e chiude il libro?” Io rispondo “Bene, per lo meno ci ha provato e se ha abbandonato il libro vuol dire che ha esercitato il suo spirito critico.” Ho sempre pensato che se un libro era troppo ovvio poteva sì essere letto una volta, ma poi chiuso per sempre. Se un bambino lascia un libro perché non lo capisce, può essere che provi il desiderio di ritornarci in seguito. Mi piace quando le storie mantengono un po’ di mistero ed è meraviglioso il momento in cui il mistero viene risolto dal lettore. In molti dei miei libri la chiave del mistero è nelle illustrazioni. Talvolta il bambino la trova, talvolta no, ma la cosa importante è che esista la possibilità di trovarla. Non mi piace fare libri che vadano bene per tutti, preferisco pensare che da qualche parte nel mondo ci sia un bambino che dopo aver provato altri libri, preferisce leggere i miei. Non vorrei essere frainteso: piacerebbe anche a me scrivere sempre libri che abbiano il successo e il fascino che ha avuto Harry Potter.
(da LiBeR 97)