Affezione dei lettori, alte percentuali di vendita e di prestito: perché, allora, tante posizioni sfavorevoli riguardo alle opere in serie?
di Pierdomenico Baccalario
Amo i libri. Tutti quanti. E poiché scrivo libri per i ragazzi, vi parlerò di loro. I ragazzi adorano le serie, le hanno sempre adorate e continueranno a farlo. Sono sicuro che ciascuno di noi ricorda quel preciso momento di gioia in cui, letto un libro meraviglioso, aveva scoperto che ne esisteva una continuazione. Certo: a volte quella continuazione è stata una profonda delusione. A volte una sorpresa. A volte, più semplicemente, è stata esattamente quello che volevamo che fosse: un’altra storia con le stesse caratteristiche, in cui la nostra immaginazione voleva tornare perché ci si era trovata bene. Un po’ come andare al nostro ristorante preferito, almeno fino a quando non cambia gestione. Rimasi quindi sorpreso quando un critico, complimentandosi con me per un premio, mi confidò, visibilmente soddisfatto: “Finalmente hai smesso di scrivere serie!”. In realtà io non avevo smesso di scrivere serie. Avevo scritto un libro che non richiedeva un meccanismo seriale, la cui storia non prevedeva situazioni ricorrenti, o personaggi che, per la loro stessa natura, volessero tornare, di tanto in tanto, a far visita ai lettori. Il “finalmente” del critico, però, nascondeva una percezione negativa sulla serialità, di più: l’idea che fosse un problema. Un problema per chi, però?
Non mi sembrava un problema per chi scrive, perché chi ha la fortuna di lavorare a una serie sa che potrà esercitare più a lungo il suo mestiere e la sua passione (quando questi, come nel mio caso, coincidono). Direi anche che non sia un problema del lettore, perché, classifiche alla mano, i libri più acquistati e più richiesti al prestito interbibliotecario dai ragazzi sono tutti seriali. Di conseguenza non possono essere un problema degli editori, se con le serie riescono a far affezionare i lettori al punto di convincerli a leggere più di un volume. Il meccanismo del ritorno in libreria funziona meglio con le serie a personaggi ricorrenti (come Harry Potter o Geronimo Stilton), più che con le serie “a contenitore”, dove la ripetitività viene esercitata sui contenuti mediante una scelta accurata dei titoli da far confluire nel catalogo (che si chiami poi le Ragazzine, gli Istrici o il Battello a Vapore). Nella mia analisi del problema ho quindi pensato alle librerie, che hanno ovviamente uno spazio limitato: è vero che certe promozioni sulle serie tolgono spazio e visibilità ai libri irripetibili? Sì, ma deve anche essere vero che il libraio, accettandole, presume di vendere più facilmente una serie piuttosto che una novità isolata, altrimenti sarebbe come chiedere al venditore di banane di esporre sempre arance. Chi rimane fuori dall’analisi è quindi, mi pare, proprio quel critico, che, insieme ad altri intermediatori culturali (i bibliotecari), ha il ruolo di gestire la scomodità,(1) ovvero di aiutare i lettori a orientarsi tra tante scelte possibili. In un suo famoso libro, il critico gastronomico Stephen Shaw,(2) riferendosi ai ristoranti autorecensiti dal pubblico, appuntava che “con il dovuto rispetto per il primo in classifica, giustamente popolare, è palesemente ridicolo anteporlo a una dozzina di altri posti, in particolare ai ristoranti di livello internazionale come...” Senza peraltro spiegare da nessuna parte perché fosse ridicolo, né in cosa consistesse il “livello internazionale”. La sua era una sorta di ammissione che, in un mondo di grande abbondanza e di facile passaparola (come quello dei ragazzi), il ruolo del critico è sul filo del rasoio. Soprattutto perché vede compromessa la sua ambizione a guidare i gusti del pubblico.
Sono quindi i critici e i bibliotecari a non amare le serie? Potrebbe essere. È in effetti la critica di qualità (come quella di Almeno questi!, su liberweb.it) a individuare il “problema” delle serie nella loro stessa supposta natura, ovvero un “valore letterario modesto” contrapposto all’“accreditata qualità dei testi e delle illustrazioni”, lo “stesso schema vincente, un po’ troppo commerciale e scontato” anziché “la pregnanza dei contenuti”, finendo in sostanza per cadere nello stesso “dilemma di Shaw”.
Gli elementi della serialità non sono figli del nostro tempo, ma fanno parte di un meccanismo specifico dell’arte del narrare,(3) ovvero di quel momento in cui l’autore si mette al servizio del pubblico stabilendo fin da subito alcuni elementi di precomprensione della storia che andrà a raccontare. Per farlo si può servire dei segni distintivi del formato e della copertina (che allettano il desiderio del lettore e gli consentiranno di scegliere velocemente il suo “genere”), del ricorso a personaggi tipizzati, di uno stile semplice in cui si predilige la trama che avrà, quasi sempre, un finale consolatorio. Un narratore al servizio della storia, e non viceversa. È quanto accadeva due secoli fa con il romanzo popolare, scritto per un pubblico che lo desiderava (professionisti e casalinghe, che determineranno negli anni ’50 e ’60 l’esplosione del fotoromanzo), o con i primi feuilleton che uscivano a puntate sui giornali (il più famoso, i Misteri di Parigi, è del 1842). Il meccanismo a puntate era squisitamente seriale: il lettore cercava la sua storia con frequenza, assecondando un desiderio di ripetizione che, a sua volta, era ancora più antico. Niente meno che quello dei cantori medievali e degli aedi. Senza scomodare Omero e i suoi cicli di versi, ne sono un esempio la vastissima (e per lo più anonima) narrativa dei Paladini di Re Carlo, dei Briganti di Sherwood o dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Serie di avventure dove i personaggi potevano anche cambiare nome, ma non l’epiteto esornativo o le caratteristiche convergenti che li rendevano riconoscibili a un pubblico che era internazionale. Perché erano storie pensate per viaggiare in tutto il mondo (conosciuto). In molte serie per ragazzi è sopravvissuta l’idea di tratteggiare un personaggio con un nome, una professione, un paio di aspetti caratteriali, una caratteristica fisica – la barbetta a punta – e la nazionalità. Stereotipi, certo, ma di contatto. E basterebbe un buon narratore di stereotipi per far conoscere ai ragazzi di oggi, a esempio, l’epopea dei pupi siciliani, invece di approfondire per l’ennesima volta la personalità di un ragazzino di periferia vittima del bullismo.
È con un sapiente dosaggio di leggerezza, sperimentazione e inventiva che si sono mossi i vari Rocambole, Pippi Calzalunghe, i coniglietti di Beatrix Potter e Lord Percy, letti magari nelle stesse famiglie in cui i “grandi” compulsavano I Miserabili, il Commissario Maigret, Dirk Pitt o il praticamente sconosciuto commissario Lucertolo, di Giulio Piccini.
Forse Dante non ha aspettato di scrivere la sua trilogia (per giunta fantasy) dopo il successo del primo tomo,(4) ma di certo Dumas non si è fatto scappare l’occasione di far tornare i suoi Moschettieri con Vent’anni dopo e poi in compagnia del visconte di Bragelonne. Lo stesso Conan Doyle, i cui romanzi storici giacciono per lo più dimenticati, ci ha pensato un bel po’ prima di far cadere Sherlock dalla nota cascata. Autori che hanno definito un’epoca, inventando l’immaginario dell’Ovest nel caso di Fenimore Cooper, il cappa e spada con Walter Scott, il poliziesco con Emile Gaboriau, il romanzo d’anticipazione con le puntate di H.G. Wells.
Per quanto riguarda la qualità letteraria, sbaglia chi crede che i tratti formali del testo seriale siano il risultato caricaturale dell’incompetenza letteraria degli autori:(5) sono, invece, il meccanismo formale di una ripetizione deliberatamente valorizzata. Il testo è volutamente “non scritto”, non è “mal scritto”. Si prediligono leggibilità, chiarezza e comprensibilità, e anche se il neretto presenta una continua illusione referenziale, una pansemia dove tutto ha significato, è proprio questo il bello. Perché si dà al lettore il ruolo di riconoscimento dei vari riferimenti. La serie è un prodotto che si consuma, ma non si distrugge, anzi: si rinnova di continuo, in un patto che resiste nel tempo almeno fino a quando resiste la creatività dell’autore (o degli autori, dato che spesso si usa un nom de plume, comunque sostituibile).
Il “finale consolatorio”, infine, dovrebbe essere preso in grande considerazione da chi si rivolge ai ragazzi. Le ultime ricerche di neuroscienza(6) ci dicono che il nostro cervello, soprattutto negli anni della formazione, tende a dimenticare gli aspetti traumatici ed esaltare quelli positivi, incrementando i collegamenti neuronali. E avviene soprattutto nei primi undici anni di vita, quando poi iniziamo a sviluppare quei primi criteri di sicurezza e personalità che ci porteranno ad apprezzare di più i finali macerati.
Mi pare, quindi, in conclusione, che sostenere che le serie possano essere un problema è come dire che lo sono i libri sottili o quelli spessi. E non c’entra il marketing: qualunque pubblicitario, a meno che non sia a caccia di una facile assunzione, vi dirà che non si può spingere un prodotto che non c’è. Se fossi il Conte Lapalisse direi che esistono bellissime serie (Le Petit Nicholas, Harry Potter, Ottoline) e brutte serie (che è inutile enumerare, dato che nessuno se le ricorda più), così come esistono libri irripetibili (The frozen boy, Sette minuti dopo mezzanotte, No) accanto a quelli orribili. Esiste tanto di tutto. E non bisogna preoccuparsene. Già nel 1845 Edgar Allan Poe dichiarava: “L’enorme moltiplicazione dei libri in qualsiasi ambito del sapere è uno dei grandi mali di questo tempo, giacché rappresenta uno dei più seri ostacoli all’acquisizione di una corretta informazione e getta in faccia al lettore cumuli di cianfrusaglie in cui egli deve cercare a penosi tastoni”.
E sappiamo come è andata a finire, almeno per lui.
1. C. Shirkly. Surplus cognitivo: creatività e generosità nell’era digitale, Torino, Codice Edizioni, 2010.
2. S. Shaw. Turning the Tables: The Insider's Guide to Eating Out, New York, Harper, 2006.
3. V. Cecchetti. Generi della letteratura popolare: feuilleton, fascicoli, fotoromanzi in Italia, Latina, Tunué, 2011.
4. L. Spagnol. De Pasagio, Milano, 2012.
5. V. Cecchetti. Generi della letteratura popolare, cit.
6. T. Sharot. Ottimisti di natura: perché vediamo il bicchiere mezzo pieno, Milano, Apogeo, 2012; “La forza degli ottimisti”, Internazionale, n. 906 (lug. 2011).
(da LiBeR 95)